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“Brevemente risplendiamo sulla terra” di Ocean Vuong

È davvero molto difficile parlarti di Brevemente risplendiamo sulla terra di Ocean Vuong, non so proprio da che parte cominciare. Dalla trama, forse, che poi una trama non è.

Il romanzo è una lettera che Little Dog scrive a sua madre Rose, raccontandole tutte le difficoltà e le esperienze che lui ha incontrato dal momento del loro trasferimento dal Vietnam agli Stati Uniti. Little Dog è anche l’unico anello di congiunzione tra Rose e nonna Lan, il solo che può aiutare le due donne – che non parlano inglese – in un impossibile tentativo di integrazione nello stile di vita americano. Nel bel mezzo di questa situazione, già complicata, Little Dog comincia anche a scoprire sé stesso e la propria diversità.

Ho letto parecchie recensioni su questo libro e molte si fermavano sul discorso relativo all’omosessualità. Alcuni lettori “maschi alfa”, particolarmente insicuri e bisognosi di affermare il proprio io, hanno trovato difficili le descrizioni dei rapporti sessuali tra Little Dog e il ragazzo che sarà il suo primo vero amore. Cercherò di essere delicato nei confronti di questi lettori, perché ognuno proviene da un vissuto differente e può essere che venga infastidito da cose che minino dei punti di riferimento ben precisi. Insomma, se uno è un coglione non è che si possa pretendere diventi intelligente con un libro, è forse più indicato che continui a trovarsi a proprio agio guardando i morti ammazzati in tv o i calciatori del cuore che vengono intervistati in mutande negli spogliatoi (molto virile, peraltro). Qui chiudiamo l’argomento.

Vuong possiede una capacità espressiva ed emotiva degna di pochi, questo è un fatto. È un autore in grado di leggere l’essere umano, di parlare in modo eterno riferendosi solo ai sentimenti e alle emozioni, lasciando fuori tutta la scenografia. Questo romanzo è estremamente poetico, al limite del sostenibile se stai cercando una trama canonica. Già, perché una trama non c’è, l’intero scritto salta da un punto all’altro, raccontando, più che le esperienze, le sensazioni che queste esperienze hanno suscitato.

Brevemente risplendiamo sulla terra non mi è piaciuto (boom), ma è un romanzo da leggere. È da leggere perché sfida dei limiti, i tuoi, perché ti fa sentire piccolo nel tuo modo di vedere le cose. Ti dice: «Ehi, guarda che profondità di lettura della vita ha questo ragazzo, tu saresti mai in grado di averla?». La risposta, spesso, è: «No».

Quindi, cosa non mi è piaciuto? Cercherò di fartelo capire.
Devi pensare a quell’amico che abbiamo tutti, quello che quando inizia a parlare apre mille argomenti contemporaneamente e si discosta dal discorso principale (chiamiamolo “ramo”) per arrivare a descriverti ogni singola variabile (chiamiamola “foglia”). Tu intanto sei lì, in apnea, che pensi “sì, ok, ma vienicene fuori, torna sulla via iniziale”. Ecco, Vuong scrive in questo modo. Poi – bisogna dirlo – chiude ogni “foglia”, rametto e fuscello per tornare a completare il ramo, ma è estenuante. Non nascondo di avere saltato spesso delle righe nella lettura, proprio per quella sensazione di ansia crescente e per il bisogno di concretezza e sintesi. Ma questo è il mio gusto, la mia preferenza di stile, e il contenitore/mezzo non può in questo caso cancellare il contenuto.

“Terrorea – Materia Corporis” di AA.VV.

Ok, in Terrorea Materia Corporis ci sono dentro anche io. Sarebbe saltato fuori, no? Quindi tanto vale dirtelo subito.
Fatto.
Sarò breve, perché è difficile parlare di un’antologia senza fare spoiler e preferenze tra i racconti – e gli autori – e lo è ancora di più, appunto, quando uno degli autori sei tu.

11 racconti horror accuratamente selezionati dal curatore – Marco Marra, scrittore ed editor – affinché presentino come tema comune quello del “corpo”. Un corpo a volte fisico, altre psicologico, altre ancora quasi teologico.

Edita da Horti di Giano, l’antologia Terrorea è il perfetto esempio di come un progetto possa ben funzionare grazie alla passione. 200 pagine che trasudano, non tanto sangue, quanto amore per il macabro e la scrittura. E, naturalmente, un misto di stili diversi e interessanti.

Sono contento di esserci (il mio racconto si intitola Io so che tu sai che io so) perché fare parte di un volume come questo significa essere stati selezionati per qualcosa di “particolare”. L’edizione è, infatti, curata nei minimi dettagli e la qualità si percepisce in ogni piccola scelta (una su tutte la copertina fighissimamente cronenberghiana di Riccardo D’Ariano).
E se tra queste scelte ci sono anche io, beh, che dire…

“Le leggi della frontiera” di Javier Cercas

Circa un anno fa ho visto sul temibile (qualitativamente parlando) Netflix il film di Daniel Monzón, Le leggi della frontiera, appunto. Ricordo di essere rimasto sorpreso, come mi accade sempre quando trovo qualcosa di decente su una piattaforma che, ormai, non distribuisce più nulla che non sia serializzato e di scarso spessore (ok, la smetto). Comunque, ho lasciato decantare la cosa finché la trama del film si è annebbiata nella mia memoria, abbastanza da poter leggere con curiosità il romanzo omonimo di Javier Cercas dal quale il film è stato tratto.

Prima parte.
Fine anni 70, fine franchismo, Gerona. In una città divisa in due tra chi ha e chi non ha, si muovono le prime bande giovanili, composte da criminali (reietti, immigrati, emarginati) provenienti dalle baraccopoli al di là del fiume Ter. Ignacio Canas, bravo ragazzo dalla parte “giusta” del confine, rimane affascinato da quello che pare, a tutti gli effetti, essere un capo banda, Zarco, poco più grande di lui e, soprattutto, da Tera, bella ragazza facente parte del giro di Zarco. Per Ignacio comincia un’indimenticabile estate di rapine, fughe, amori e avventure.
Seconda parte.
Vent’anni dopo, Ignacio è diventato un avvocato di successo, uno di quelli che non perde mai. Zarco è in carcere e ha sulle spalle il peso del mito mediatico del primo capobanda del dopofranchismo. Tere è, come sempre, inaffidabile. Ignacio è costretto a rivivere quell’estate di anarchia e scoprire se valga o meno la pena di mettere la sua carriera in gioco per salvare (e scarcerare) quel poco che rimane di Zarco. Soprattutto, scoprire se valga la pena mettere la sua vita in gioco in nome dell’amore (vero/idealizzato) per Tere. Mi fermo.

Il romanzo è raccontato sotto forma di narrazione diretta dello stesso Ignacio (al 90%, con brevi capitoli raccontati da altri personaggi secondari) per un ghost writer che deve scrivere un libro sulla vita del “mito” Zarco. La storia è fortemente divisa in due parti, tanto che il film di Monzón ne racconta solo la prima (che, effettivamente, starebbe in piedi anche da sola). Quindi si può parlare di un romanzo di formazione unito a un dramma carcerario/giudiziario. Se mi conosci, sai già quale parte ho preferito…
L’estate di Ignacio è coinvolgente e narrativamente potente, con tanto di riscatto sociale e fuga da un’esistenza apparentemente dorata ma che nasconde problemi di bullismo (subito) e incomprensioni familiari. Il dramma carcerario, invece, mi è parso un pochino prolisso e ripetitivo, tanto che un taglio del 30/40%, a mio parere, non avrebbe guastato. Sintesi: ho letto in tre giorni le prime 200 pagine e in dieci le restanti 200.

Nonostante questo, Le leggi della frontiera è un romanzo che ti consiglio, senza ombra di dubbio. Il racconto della giovinezza di Ignacio, Tere e Zarco è così forte e comunicativo da mettere in ombra la “normale” vita adulta degli anni successivi. Ma forse è proprio questo che Cercas voleva mettere sul tavolo (anche nei ritmi narrativi): il contrasto tra l’idealizzazione, la giovinezza, e la vita reale che attende dietro l’angolo. Lo scontro tra un futuro incerto e ancora aperto e un’inevitabile esistenza canonica, quasi già scritta.
Mi pare che ci sia riuscito molto bene.

“L’isola del tesoro” di Robert Louis Stevenson

Ultimamente non ho molta voglia di leggere, sono parecchio demotivato. So che succede e non mi preoccupo – sono ancora lontano dal lobotomizzarmi bramando come obiettivo di vita la scempions di turno – tuttavia è un dato di fatto che sia passato dal leggere un libro in tre giorni a più di un mese. Ho scelto L’isola del tesoro (1883) proprio per cercare di uscire da questa impasse, fallendo. Sulla carta c’era tutto: letteratura per ragazzi, avventura, grande successo, eppure… eppure.

Di Stevenson avevo letto solo Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde e ricordo mi fosse piaciuto. Certo, lì era presente un tema forte, eterno, il Bene contro il Male nella natura umana. In più mi era piaciuto moltissimo L’isola dei pirati di Crichton, quindi tutto faceva presagire a un’ottima commistione tra un autore apprezzato e un genere interessante.
Avrai già capito che tutto questo preambolo nasce da una delusione, non la tirerò per le lunghe.

La trama è nota (vorrei ben vedere!) e rivista in varie opere successive, in tutte le salse. Un giovane ragazzo, Jim, entra in possesso di una mappa, poi c’è il viaggio sulla nave in cerca dell’isola e del tesoro, l’ammutinamento, i combattimenti, ecc.
Devo dire che l’inzio del romanzo, con l’arrivo dell’enigmatico marinaio nella locanda di Jim, mi aveva conquistato. Il senso di mistero e la tensione erano palpabili e “moderni”, in qualche modo. Tuttavia, dopo il breve intermezzo del viaggio in nave fino all’isola, il romanzo vira verso un continuo botta e risposta tra ammutinati e “buoni”, diventando poco coinvolgente, ai miei occhi. Le battaglie e gli scontri con il moschetto non suscitano in me nessun interesse, c’è solo la voglia di vedere come vadano a finire per poter procedere con la trama e arrivare al punto successivo.

Lo so, lo so, che sto parlando con leggerezza di un grande classico. Mi rendo conto, tuttavia, che questo sia un mio limite, una preferenza personale. Stevenson mi piace nello stile di scrittura, lo trovo più godibile rispetto a Verne (per rimanere tra i giganti dell’epoca), del quale però apprezzo maggiormente le trame, più coinvolgenti.

Non lo so, mi aspettavo più mistero, una tensione quasi soprannaturale, che non ho trovato. È tutto alla luce del sole, tutto esplicitato. Ho avvertito poco la solitudine del mare, la solitudine dell’isola. In poche parole, sono rimasto fermo, non ho viaggiato. Mi dispiace.

Ma la verità, temo, è che io sia ormai troppo vecchio per apprezzare qualcosa che farà sicuramente brillare gli occhi a un ragazzino alle prime letture.

In tema pirati/mare ho sullo scaffale La trilogia del mare di Golding. Attenderò un po’ prima di affronatarlo. Credo che ora leggerò Le leggi della frontiera di Javier Cercas.

“In fondo alla notte” di Dean Koontz

In fondo alla notte viene pubblicato per la prima volta nel 1979, Koontz in quell’occasione utilizza uno dei suoi pseudonimi: Leigh Nichols. Il romanzo viene poi rivisto intorno al 1995 e, questa volta, esce con il nome di Koontz.

Alex, un investigatore in vacanza a Kyoto, incontra per caso una ragazza scomparsa anni prima. La ragazza, Lisa, era la figlia di un senatore, ex-cliente di Alex, che l’investigatore non era mai riuscito a ritrovare. Il problema è che Lisa è convinta di chiamarsi Joanna e ricorda un passato totalmente di diverso da quello che Alex conosce. Joanna/Lisa ha incubi ricorrenti, il protagonista degli incubi è un dottore che la tiene legata a un lettino e ha una mano meccanica…

Manipolazione della mente, distorsione del passato, ipnosi… in questo datato romanzo di Koontz compaiono molte delle caratteristiche che poi si rivedranno nei suoi libri successivi, perlomeno in molti di quelli che ho letto io. Un romanzo veloce e molto semplice – purtroppo nel senso negativo del termine – che non rimarrà tra i miei ricordi a lungo.

Descrizioni semplici – non sto abusando del termine, è quello che calza meglio – unite a soluzioni semplici. La nota ricetta di Koontz (thriller, un pizzico di horror e un po’ di romanticismo, dicono) non mi è mai risultata così indigesta. A tratti siamo vicini al romance, con tanto di adolescenziale attesa dei protagonisti che, per fare sesso, aspettano di dirsi “ti amo”.
E poi spiegoni, spiegoni ovunque. Nei dialoghi, nei sentimenti, nelle situazioni. Quasi che il lettore medio di Koontz possieda un QI sotto la norma.
Mi dispiace essere così negativo, ma questa sembra l’opera prima (ma Koontz scrive dal ’68) di un autore che, in Italia, non verrebbe nemmeno pubblicato.

È incredibile come, solo quattro anni dopo, Koontz abbia scritto un romanzo di gran lunga superiore: Phantoms!. È altrettanto incredibile, tuttavia, come Koontz venga spesso associato a King, le cui prime opere sono tutte eccezionali (anche le vere prime opere, quelle scritte prima di Carrie sotto lo pseudonimo di Bachman).

Non smetterò di leggere Koontz, perché ho già acquistato altri suoi libri (spero migliori). Tuttavia inizio a pensare sia un autore che abbia prodotto troppo. All’americana, per capirci.

Libri che ho letto di Dean Koontz:
In fondo alla notte (1979)
Il tunnel dell’orrore (1980)
La casa del tuono (1982)
Phantoms! (1983)
Incubi (1985)
Lampi (1988)
Cuore Nero (1992)
L’ultima porta del cielo (2001)
Il luogo delle ombre (2003)
Velocity (2005)
Nel labirinto delle ombre (2009)

“Stato di paura” di Michael Crichton

Thriller ambientale con una trama difficile da riassumere (infatti non ci provano nemmeno nelle alette del libro), Stato di paura è un romanzo di Michael Crichton del 2004. Gli argomenti trattati e le tematiche potrebbero essere attualissime (e lo sono), poiché l’autore, come sempre, precorre i tempi di parecchio.

Si parla di dispute climatiche su scala globale con il coinvogimento di multinazionali, associazioni ambientaliste, filantropi e ecoterroristi. I ghiacciai si stanno sciogliendo? L’anidride carbonica sta aumentando? C’è un surriscaldamento globale? È l’uomo il responsabile dei – presunti – cambiamenti? Cosa è vero e cosa è falso?

La verità è solo un’opinione quando in ballo ci sono milioni di dollari. Di ogni cosa si può dire tutto e il contrario di tutto. Gli ambientalisti sono finanziati dalle aziende, le aziende hanno enormi interessi economici e i governi dipendono da questi interessi. Gli studi scientifici ricevono fondi per confermare teorie che, se smentite, interromperebbero il flusso dei finanziamenti stessi. Tutto è marcio, tutto è, in qualche modo, corrotto. In un mondo dove domina il denaro, la sola certezza è che nessuno ne sa abbastanza. Il popolo poi, è pilotato da campagne mediatiche prive di basi scientifiche, basate sull’emozione e sul forte impatto visivo.

L’incipit di Stato di paura – con tantissimi luoghi e personaggi – è molto (troppo) simile a quello di Next, ma poi fortunatamente il romanzo torna in carreggiata e non si (dis)perde come il suo immediato successore. È un bene. Sono 680 pagine che ho letto tutte d’un fiato. Crichton fa crescere i dubbi, Stato di paura è un’occasione per riflettere, finalmente. Ogni convinzione è figlia della TV, delle notizie, dei media. Nulla è certo e, scavando, tutto diventa più complicato e sfaccettato.

La trama è inventata, spiega subito Crichton, ma i riferimenti agli articoli e agli studi no. A conclusione del romanzo qualche pagina, molto interessante, illustra il punto di vista dell’autore e elenca una lunghissima bibliografia.
Da leggere, anche solo per realizzare di “sapere di non sapere”.

Libri che ho letto di Michael Crichton:
Andromeda (1969)
Il terminale uomo (1972)
La grande rapina al treno (1975)
Mangiatori di morte (1976)
Congo (1980)
Sfera (1987)
Jurassic Park (1990)
Sol levante (1992)
Rivelazioni (1994)
Timeline – Ai confini del tempo (1999)
Stato di paura (2004)
Next (2006)
L’isola dei pirati (2009)

“Addio alle armi” di Ernest Hemingway

Trama.
Giovane ufficiale americano, autista di ambulanze, diserta durante la ritirata di Caporetto. Si ricongiunge con la fidanzata incinta, un’infermiera, rifugiandosi in Svizzera. [SPOILER CON FINALE]. Il bambino muore durante il parto, la donna muore poco dopo. L’uomo rimane solo. Fine.

Ho un rapporto difficile con Hemingway, gli ho sempre di gran lunga preferito Steinbeck, eppure Il vecchio e il mare è uno dei miei romanzi preferiti in assoluto. Forse è per questo che continuo a leggere altri romanzi dello scrittore, sebbene mi annoino. Addio alle armi non è stato da meno, una storia priva di qualsiasi emotività (se non nel finale) intrisa di un verboso machismo che non porta da nessuna parte. Qualcuno mi odierà per questo, chi se ne frega.

I dialoghi tanto decantati dell’autore, famosi per essere particolarmente asciutti, non mi hanno trasmesso nulla. La prima parte del romanzo poi, fino alla diserzione (pagina 200 circa, su 340), è un insieme continuo di scambi e battute (superflue) tra commilitoni. Semplicemente interminabile, Addio alle armi, tre settimane di lettura.

L’unico momento nel quale si intravede un senso e quello del finale, il ricovero in ospedale dell’amata, l’ombra della morte. La solitudine, la paura, la sofferenza. Ho letto che Hemingway ha riscritto questa parte qualcosa come 47 volte, prima di decidere quale fosse la versione definitiva. Il senso di sconfitta che aleggia nell’aria è palpabile, e forse val la pena soffrire tutto il libro per leggere queste ultime pagine.

Ho ancora sulla mensola dei “da leggere” altri quattro romanzi di Hemingway. Tuttavia, per quanto il fascino di un essere umano che si spara in bocca sia qualcosa, per me, di calamitante, inizio ad avere pochissime speranze sul fatto che possano piacermi. Vedremo.

Libri che ho letto di Hemingway:
Fiesta – E il sole sorgera ancora (1927)
Addio alle armi (1929)
I quarantanove racconti (1938)
Il vecchio e il mare (1952)
Vero all’alba (1954-56)

“Fairy Tale” di Stephen King

C’è qualcosa che devo premettere prima di parlarti di Fairy Tale, il nuovo romanzo di Stephen King. Non amo i gialli, e infatti ne leggo pochi. Non amo i romanzi storici, e infatti ne leggo pochi. Non amo del tutto i sentimentali, e infatti non ne leggo. Ebbene, anche il fantasy non è tra i miei generi preferiti eppure… eppure un po’ ne ho letti, di fantasy. Tutti i must, per capirci. Il Signore degli Anelli, ovviamente (ed è immenso), La Saga di Terramare, Le Cronache di Narnia… solo per citarne alcuni. Di King, nel genere, ho letto Gli occhi del drago e, sempre che possa considerarsi un fantasy – ma non credo proprio – tutta la stratosferica serie de La Torre Nera. Non ho ancora letto Il Talismano e La casa del buio, sono tra quei tre libri che lascio indietro che cito sempre a fine post.

Perché non apprezzo il fantasy? Perché il fantasy, a differenza dell’horror e della fantascienza, si pone già in una condizione di totale irrealtà che rende difficile empatizzare con i personaggi, capirne le turbe e i problemi. Mi spiego. Posso immaginare come mi sconvolgerebbe, a livello emotivo, un’invasione aliena o una creatura che esce dal fosso dietro casa (si parla di un reale che conosco che si scontra con l’immaginario/imprevisto), ma non riesco a identificarmi in un mondo dove elfi, draghi e giganti siano sempre eistiti. Come potrei? Non è il mio mondo. È un vero e proprio scostamento dal vivere quotidiano. Per me, almeno.

King, con Fairy Tale, fa qualcosa di grandioso, almeno inizialmente. In un romanzo di 700 pagine, le prime 200 non hanno nulla di fantasy.
Boom.
Le ho letteralmente divorate, quelle 200 pagine. Mi son ritrovato in un’atmosfera che ricordava moltissimo il racconto Il telefono del signor Harrigan (da Se scorre il sangue – tra poco ne uscirà il film su Netflix).

Un ragazzo, Charlie, entra in confidenza con il misterioso e burbero anziano che vive nella casa in cima alla collina e che ha palesemente qualcosa da nascondere. La madre di Charlie è morta in un incidente e il padre è un ex alcolizzato. A Charlie, alla sua storia, ti affezioni. Poi Charlie scende nel pozzo nascosto dietro la casa e raggiunge un altro mondo, insieme al fido cane Radar. E, all’inizio, funziona tutto comunque, perché quelle 200 pagine (il mondo reale) te le porti dietro. In quel pozzo ci stai scendendo anche tu, con tutti i tuoi problemi tangibili.
Ma, ahimè, non dura.
Non dura perché King questa volta calca la mano e – tra grilli semi-parlanti, principesse e gigantesse – ho avuto la sensazione (lo sto per dire, mai avrei immaginato) che il Re cercasse di parlare ai giovani… come lo farebbe un “vecchio” che cerca di imitare il loro linguaggio. A pagina 300 il mondo reale, che mi ero tenuto tanto stretto, l’ho dimenticato e ho cominciato ad annoiarmi (per inciso, il primo libro che ho letto di King è stato Gli occhi del drago e, nonostante fosse un fantasy puro, l’ho adorato). La storia prosegue con un regno che è stato usurpato e che deve essere riconquistato da un principe e una principessa. Mi fermo.

Non è stato sufficiente l’omaggio a Bradbury e a Il popolo dell’autunno per emozionarmi. Magari sono io, magari quel linguaggio funziona benissimo e i giovani, che oggi divorano i fantasy, rimarrranno soddisfattissimi da questo romanzo di King. Non lo so. Io appartengo a un mondo che è “andato avanti” e che “non ha dimenticato il volto di suo padre”. Un altro mondo, insomma, probabilmente posto lungo un altro Vettore, dove non gira una meridiana ma la ruota del Ka.

Ho letto quasi tutti i libri di Stephen King (ne ho lasciati indietro tre, per dopo), ma quelli di cui ti ho parlato sul blog sono questi:
Blaze (2007, come Richard Bachman)
Duma Key (2008)
Revival (2014)
Mr. Mercedes (2014)
Chi perde paga (2015)
Il bazar dei brutti sogni (2015)
Fine turno (2016)
La scatola dei bottoni di Gwendy (2017, con Richard Chizmar)
Sleeping Beauties (2017, con Owen King)
The Outsider (2018)
Elevation (2018)
L’istituto (2019)
Se scorre il sangue (2020)
Later (2021)
Guns – Contro le armi (2021)
Billy Summers (2021)
L’ultima missione di Gwendy (2022, con Richard Chizmar)
Fairy Tale (2022)

I fumetti (sempre solo quelli dii cui ti ho parlato sul blog):
Creepshow (1982)
The Stand / L’ombra dello scorpione (2010-2016)

I saggi su King (idem, vedi sopra):
Stephen King sul grande e piccolo schermo di Ian Nathan (2019)
Il grande libro di Stephen King di George Beahm (2021)

“Tutti i racconti Vol. 2 1954-1959” di Richard Matheson

Ho terminato ora questa seconda antologia di Matheson e credo che potrei ripeterti esattamente quanto già detto per Tutti i racconti Vol. 1 1950-1953 (ti rimando al post precedente, se desideri saperne di più), quindi non mi dilungherò troppo. Anche il volume relativo al periodo 1954-1959 contiene una varietà di racconti notevole, 500 pagine divise tra fantascienza, horror e qualche western, con alcune esplorazioni nel campo del thriller e del grottesco. Qualità altissima.

Una curiosità: è presente la riscrittura di uno stesso racconto – un western appunto – peraltro abbastanza lungo. È Va’ verso ovest ragazzo, rielaborato con il titolo Il conquistatore. Da lettore appare forse un po’ strano trovare due racconti praticamente uguali di seguito… ma se ami anche scrivere saprai apprezzare questa scelta editoriale.

Il mio racconto preferito: Una grossa sorpresa. La storia di un anziano che suggerisce a un ragazzo di andare a scavare in un campo una buca profonda tre metri. Oltre alla “grossa sorpresa”, c’è chiaramente molto di quello che poi si ritroverà in King, in questa storia.

Ho già anche il terzo e quarto volume della serie, a presto.

Libri che ho letto di Richard Matheson:
Io sono leggenda (1954)
Tre millimetri al giorno (1956)
Io sono Helen Driscoll (1958)
La casa d’inferno (1971)
Tutti i racconti Vol. 1 1950-1953 (2013)
Tutti i racconti Vol. 2 1954-1959 (2013)

“Nel labirinto delle ombre” di Dean Koontz

Nel labirinto delle ombre è il secondo romanzo di Dean Koontz avente come protagonista Odd Thomas (il primo è Il luogo delle ombre). Negli Stati Uniti, Koontz è arrivato al nono “episodio”, tuttavia da noi le traduzioni si sono fermate proprio a questo secondo. Odd è un ragazzo con dei poteri: vede le persone morte e cerca di portarle verso la luce, inoltre (per farla breve) attira e/o viene attirato dai guai (lui lo chiama magnetismo psichico). Il primo romanzo mi era piaciuto molto, questo, invece, l’ho trovato parecchio deludente.

Un giovane amico di Odd viene rapito, dopo che il padre è stato ucciso. Odd deve muoversi in fretta poiché il ragazzo soffre di una patologia che rende le sue ossa fragili come il vetro (la stessa de “L’uomo di vetro” di Unbreakable, per capirci). Lo cerca, lo cerca per tutte le 360 pagine del romanzo. La scenografia è quella di un resort abbandonato nel deserto dove, ti assicuro, non succede assolutamente nulla. Mi fermo.

Quando leggo romanzi di questo genere mi chiedo se siano stati scritti per contratto. Un racconto di 30 pagine tirato in lungo e gonfiato per essere impacchettato come un romanzo. La trama è quella che hai letto sopra, non c’è altro. Il “labirinto” del titolo è il resort e il sottosuolo nel quale Odd si muove, girando a destra, poi a sinistra, poi in un condotto, poi sulle scale, poi nei corridoi… È meglio che sia più esplicito: quando leggo romanzi di questo genere mi sento proprio tirato per il culo.

È un peccato, perché Odd è un bel personaggio e la narrazione in prima persona ti dà la sensazione di essere al suo fianco e condividere le sue paranoie/paturnie. Non è mai pesante, mai noiosa. È la storia a essere noiosa, più che altro a non-essere, perché non c’è.
Come altro potrei spiegartelo? Potresti leggere questo libro anche saltando i capitoli pari, o quelli dispari, e capiresti tutto lo stesso.
Che delusione, caro Koontz.

Libri che ho letto di Dean Koontz:
Il tunnel dell’orrore (1980)
La casa del tuono (1982)
Phantoms! (1983)
Incubi (1985)
Lampi (1988)
Cuore Nero (1992)
L’ultima porta del cielo (2001)
Il luogo delle ombre (2003)
Velocity (2005)
Nel labirinto delle ombre (2009)