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“Il giro di vite” di Henry James

Non leggo spesso romanzi gotici e non mi considero, quindi, un esperto del genere. Qui sul blog, infatti, ti ho parlato di pochi titoli. Senza andare cercare in archivio, mi vengono in mente Melmoth l’errante (1820) di Maturin e The woman in black (1983) di Susan Hill. Ovviamente, poi, c’è L’incubo di Hill House (1959) di Shirley Jackson che, peraltro, presenta molti punti di contatto con Il giro di vite (1898) di Henry James. Anzi, partiamo da questi, così almeno ci svaghiamo un po’ perché, come leggerai più avanti, di svago a questo giro ce n’è poco…

Sia il romanzo della Jackson che quello di James parlano di infestazioni, vere o presunte. Entrambi si collocano in quella linea sottile che divide il soprannaturale dalla malattia mentale (sì, lo so, questo è un piccolo spoiler ma non è grave). Inoltre, recentemente, i due libri hanno avuto delle trasposizioni – più “ispirate a”, che altro – per Netflix ad opera di Mike Flanagan, un regista che mi piace molto (se vuoi guardare una sua serie, però, scegli Black Mass). Mentre ho visto The haunting of Hill House prima di leggere il romanzo, con The haunting of Bly Manor è accaduto il contrario. Diciamo che, in qualche modo, a Il giro di vite ci arrivavo preparato. È incredibile: mi è piaciuta più la serie del romanzo (chi mi conosce sa che di serie ne guardo veramente poche e, in linea generale, odio questo tipo di format televisivo-fidelizzante-lobotomizzatore).

La trama è abbastanza conosciuta. Una istitutrice viene inviata a Bly Manor per prendersi cura di due bambini, Miles e Flora. La donna è affiancata da una governante, Mrs. Grose, che la sostiene e la aiuta in tutte le sue scelte. Miles è stato recentemente espulso da scuola, per motivi che non è dato sapersi. In realtà, entrambi i bambini si comportano, agli occhi dell’istitutrice, in modo strano/ambiguo. La donna si convince, così, che Miles e Flora siano segretamente in contatto con i fantasmi di due persone morte che avevano precedentemente servito a Bly (e che lei vede spesso apparire all’interno della proprietà). Mi fermo, per non svelare il finale, ma la trama è tutta qui.

Un pacco, un pacco mostruoso. Un libro che non ho mai avuto voglia di prendere in mano per vedere come proseguisse la storia. Ostico anche nello stile, che risente pesantemente del tempo passato. James è verboso, ridondante e, soprattutto, noioso (casomai non si fosse capito). So di stare sparando su un mostro sacro e intoccabile, ma questo è quello che penso. Il giro di vite è osannato da molti (uno su tutti, Stephen King) come uno dei migliori romanzi gotici mai scritti, ma io l’ho odiato fin dalle prime pagine. Semplicemente, non accade nulla. Mai. La protagonista, inoltre, è vittima di una costante insicurezza che la rende insopportabile. Una sorta di desperate housewife decontestualizzata.

Per completezza, devo dirti che la lettura di questo romanzo è doppia. La prima, la più semplice, è quella che lo ritiene una classica ghost story. La seconda, più ricercata (ma nemmeno troppo), è quella che mette in dubbio la sanità mentale dell’istitutrice e legge l’intera vicenda come se fosse la descrizione della sua pazzia (la storia è narrata da lei sotto forma di diario, quindi si conosce solo il suo punto di vista).  Non saprei quale delle due scegliere, ma spero nella seconda opzione, renderebbe il tutto meno banale.

180 pagine lette in una settimana. Per i primi due giorni mi sono imposto una lettura forzata di 50 pagine al giorno, poi la media è drasticamente calata… Peccato, mi aspettavo davvero tanto, dopo tutte le premesse.

“Stephen King sul grande e piccolo schermo” di Ian Nathan

Per gran parte questo Stephen King sul grande e piccolo schermo, di Ian Nathan, è stato un gigantesco viaggio amarcord nella mia infanzia e adolescenza. Mi sono sentito come quando ritrovi un vecchio album di foto, dimenticato in un cassetto, e riscopri momenti della tua vita andati persi nel tempo. Una sensazione alla Stand by me, per capirci. Ecco.

Un lavoro titanico, deve essere stato un lavoro titanico. Io lo so bene.
Stacco, flashback.

Mi sono laureato nel 2010, il titolo della mia tesi era Stephen King Audiovisivo (seguito da un sottotitolo blablabla che non ricordo). Anni e anni di letture di libri e visioni di film condensati in poche pagine (come se si potesse davvero riassumere l’enorme universo narrativo del Re). Una comparazione divisa per macrotemi tra romanzi, racconti e trasposizioni varie. Un lavoro titanico, appunto, anche se molto dilatato nel tempo. Ho iniziato a leggere Stephen King a dodici anni (Gli occhi del drago) e non ho più smesso. In realtà, a voler essere precisi, il primo film horror che ho visto, a circa otto anni, è stato Unico indizio la luna piena, quindi ancora precedente alle mie letture. Fine del flashback.

Alcune locandine di film tratti da opere di King.

Ian Nathan analizza ogni singola produzione e, in un paio di pagine per ognuna (quattro/sei per le opere maggiori), ne racconta la genesi e gli aneddoti più curiosi. Un lavoro volutamente e necessariamente di superficie (ci sono interi libri dedicati a singoli film, vedi Shining) ma molto molto interessante, soprattutto per quanto riguarda le produzioni minori – i b-movies tanto amati da King – delle quali spesso si conosce poco o nulla. Tutto questo mi ha riportato indietro, alle VHS da 180/240 minuti, alle programmazioni notturne, al videoregistratore (alias The Mangler) che si impianta e rovina scene fondamentali, alla speranza che il palinsesto non subisca ritardi (altrimenti ciaociao finale). Che tempi, altro che Netflix, quella sì che era sofferenza vera. Il timer indicava 2 ore e 59 minuti e, mentre un Brivido ti correva lungo la schiena, potevi solo sperare che il film terminasse nei 4/5 minuti extra di nastro. Quasi mi commuovo.

Da: Pet Sematary – Carrie – It – Misery

Quello che risulta evidente, leggendo questo volume, è come la produzione principale delle trasposizioni, con il tempo, si sia spostata (purtroppo, ma io sono di parte) dal cinema alla tv, con il sopravvento della serialità. A King non dispiace, è sempre stato molto più aperto di me, in questo senso. Non starò qui a discutere di questo, l’ho già fatto in Perché le serie tv sono i maccheroni Barilla e i film (alcuni) le tagliatelle tirate a mano della nonna, esplicitando tutti i miei malumori a riguardo.

Il dato semi-aggiornato di Nathan (è un valore quasi incalcolabile, considerando le produzioni secondarie e i lavori in corso) parla di 65 film e 30 produzioni televisive. Mi sono accorto di aver visto praticamente tutto fino al 2010 (che caso…) e di aver perso qualcosa negli anni successivi. Questo soprattutto per quanto riguarda le serie, non tanto per l’ostilità palesata sopra, quanto perché sono distribuite su più piattaforme ed è diventato impossibile stare al passo senza dover sottoscrivere diciotto abbonamenti diversi. Vedrei volentieri Castle Rock, che, a quanto ho capito, pare essere un omaggio riuscito abbastanza bene.

A breve ti parlerò anche de Il grande libro di Stephen King, di George Beahm, nel quale mi aspetto di trovare, vista la considerevole mole, parecchie cose che ancora non so (difficile, ma non impossibile, sebbene io mi ritenga il “fan numero uno” del Re).

Ho letto quasi tutti i libri di Stephen King (ne ho lasciati indietro tre, per dopo), ma quelli di cui ti ho parlato sul blog sono questi:
Blaze (2007, come Richard Bachman)
Duma Key (2008)
Revival (2014)
Mr. Mercedes (2014)
Chi perde paga (2015)
Il bazar dei brutti sogni (2015)
Fine turno (2016)
La scatola dei bottoni di Gwendy (2017, con Richard Chizmar)
Sleeping Beauties (2017, con Owen King)
The Outsider (2018)
Elevation (2018)
L’istituto (2019)
Se scorre il sangue (2020)
Later (2021)
Guns – Contro le armi (2021)
Billy Summers (2021)

I fumetti (sempre solo quelli dei quali ti ho parlato sul blog):
Creepshow (1982)
The Stand / L’ombra dello scorpione (2010-2016)

I saggi su King (idem, vedi sopra):
Stephen King sul grande e piccolo schermo di Ian Nathan (2019)