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“L’inverno di Frankie Machine” di Don Winslow

Frankie “The Machine” Macchiano, sessant’anni, è un ex malavitoso che si è ritirato a vita privata. Si gode il surf – rigorosamente nell’Ora dei Gentiluomini – e vende esche nel suo negozio sul molo di San Diego. Una ex moglie, un’amante, una figlia. Una vita tranquilla, insomma. Poi qualcuno gli tende un’imboscata e cerca di farlo fuori. Chi mai potrebbe volerlo morto? Dopo anni nella mala, frequentando boss e gangster di ogni tipo, i sospettati sono davvero tanti, forse troppi. Frankie Machine mette al sicuro le sue donne, chiude il negozio e sparisce, sotto un’altra identità. È un tipo organizzato, uno di quelli che non sbaglia mai. È The Machine, appunto, rispettato e temuto da tutti. L’ultima sua partita, quella con la morte, è appena iniziata.

L’inverno di Frankie Machine è il primo romanzo che leggo di Don Winslow, con colpevole ritardo. Sebbene, nel corso della storia, diversi mafiosi citino Il padrino come fosse la Bibbia, questo romanzo è mooolto più vicino allo stile di Quei bravi ragazzi. Diciamo pure che, se ti è piaciuto il film di Scorsese, amerai The Machine. So che De Niro ha acquistato i diritti del romanzo per trarne un film, potrebbe essere una scelta azzeccata (sempre che non si scada in un ringiovanimento forzato in stile The Irishman).

Frankie è uno della mafia che “ci piace”. La mafia con un codice etico, che non tocca donne e bambini e che uccide solo chi se lo merita. La mafia che aborre il coinvolgimento di civili, che reputa un disonore la morte di un innocente. Quella mafia d’altri tempi, insomma, con regole d’onore ferree. La mafia del cinema, di De Niro, Pesci, Liotta, Brando, Al Pacino e compagnia. La mafia epica, quella della voce narrante in sottofondo, dei ricordi e delle “buone azioni”. Una mafia fantascientifica, insomma.

Detto questo, a Frankie ti affezioni, non c’è niente da fare. Winslow – debitore di quanto descritto sopra, più che della realtà – ti cala in un mondo che non esiste e lo fa molto bene. E tu vorresti farne parte. Il Canone hollywoodiano è perfettamente rispettato ed è quello che stavi cercando. Quello che è quasi impossibile da trovare, oggi.
È inutile specificare che di questo autore mi sentirai parlare ancora…

“Le otto montagne” di Paolo Cognetti

Cosa posso dirti a proposito de Le otto montagne di Paolo Cognetti? Non lo so. È da dieci minuti che sono qui, fermo davanti alla pagina bianca, cercando le parole giuste per descriverti questo romanzo. Raccontarti la trama sarebbe riduttivo (lo farò comunque, tranquillo), citare la vittoria del Premio Strega nel 2017, anche. La verità è che questo libro ti fa sentire piccolo, come un escursionista davanti all’Himalaya (per rimanere in tema).

La storia è semplice, per nulla complessa. È quella di due amici, Pietro e Bruno, e delle loro vite. Entrambi condividono la passione per la montagna, pur avendo caratteri e famiglie molto diverse. Pietro, il narratore, ha un rapporto molto difficile con il padre; Bruno invece, più selvaggio, sembra rapportarsi solo con la natura. Attraverso tre diverse stagioni della maturità, Cognetti li avvicina e li allontana, senza però far loro mai perdere il senso di un legame indissolubile.

Potrebbe sembrare banale, quanto ti ho appena raccontato. Credimi, non lo è, non lo è per nulla. Il livello di profondità che raggiunge l’autore è qualcosa di straordinario, e altrettanto straordinario è il modo nel quale ci riesce. È come se fosse in grado di interpretare l’animo umano, tutto qui. Voglio leggere tutto di Cognetti, tutto. Mi ha fatto venire voglia di scrivere, tanto basta.

Non è una scoperta nuova per me, questa, è una cosa che ho sempre pensato. Quando un’opera è bella, è completa, non se ne può parlare più di tanto. Forse è un limite mio, non lo so. Ma quando un’opera è così, si può solo rimanere lì ad ammirarla. Ecco, è questo che penso de Le otto montagne.

“Glamorama” di Bret Easton Ellis

In un mondo in cui le tagline vanno per la maggiore, Glamorama (1999) potrebbe essere sponsorizzato così: «Quando Ellis incontra Palahniuk nasce un indigeribile pacco di 630 pagine».
Potrei fermarmi qui, credo tu abbia già intuito cosa penso di questo romanzo. Eppure a me Ellis piace, parecchio anche. Glamorama è il suo sesto libro che leggo (su otto che ha scritto) e il primo che ho trovato del tutto respingente (passami il termine). Mi dispiace, so che ci ha messo sette anni a partorirlo, quindi posso solo immaginare lo sforzo.

Di cosa parla Glamorama? Non mi è molto chiaro, cercherò di andare per punti.
La prima parte (circa 200 pagine) contestualizza il personaggio di Victor Ward, modello superficiale perfettamente inserito in un mondo altrettanto superficiale. Nulla di nuovo, è quanto si è già letto nei precedenti lavori di Ellis. È il pane di Ellis, per dirla in altri termini: la feroce critica sociale alla società dell’apparenza di Hollywood e, in generale, del mondo dello spettacolo. Qui non succede assolutamente nulla, ma nulla di nulla.
La seconda parte (altre 200 pagine) è occupata dal viaggio che Victor compie, via nave, per recarsi in Europa e dall’introduzione di nuovi personaggi che ricreano la “scenografia” hollywoodiana nel Vecchio Continente.
La terza e ultima parte (le 200 pagine conclusive) rappresenta il delirio di Victor (ma anche di chi legge). Non si capisce più cosa sia vero e cosa sia falso, dove finisca la realtà e cominci la fantasia del protagonista, drogato e inebetito. Complotti, terrorismo, attentati, film girati durante stragi dinamitarde. C’è di tutto.

Te lo dico chiaramente: sono perfettamente cosciente del discorso metaforico sulla realtà e sulla superficialità, su quello che, insomma, Ellis intende denunciare. E sono anche d’accordo, mi trova sulla stessa lunghezza d’onda. Ma non si può fare così, non con un volume lungo quanto un vocabolario. È troppo, punto.
Ho citato Palahniuk perché, quando nella trama sono cominciati a comparire terroristi, bombe e complotti, ho pensato a una situazione simile a quella del Fight Club. Magari.
In Glamorama Ellis ha messo il peggio del nonsense presente nei suoi due primi lavori (soprattutto per quanto riguarda i dialoghi) e lo ha mescolato con la violenza di American Psycho, togliendo la struttura che reggeva quei fantastici romanzi e creando un ibrido, appunto, indigeribile.

Curiosità: so che c’è stato un contenzioso con la produzione di Zoolander, all’epoca, risolto con un accordo economico per il quale Ellis non avrebbe più parlato in pubblico della cosa. Effettivamente, pensandoci, Derek Zoolander è l’estremizzazione comica (ma non molto più comica) del modello Victor.

Peccato. Mi mancano solo gli ultimi due romanzi di Ellis, Imperial Bedrooms e Bianco. Li recupererò, sperando di ritrovare il genio.

I libri di Bret Easton Ellis:
Meno di zero (1985)
Le regole dell’attrazione (1987)
American Psycho (1991)
Acqua dal sole (1994)
Glamorama (1999)
Lunar Park (2005)

“La strada” di Cormac McCarthy

La strada (2006) è un romanzo di Cormac McCarthy, vincitore del James Tait Black Memorial Prize e del Premio Pulitzer. Dal libro è stato tratto lo stupendo The Road, di John Hillcoat (suo anche Lawless, molto bello), con Viggo Mortensen. La strada, così come Cecità di Saramago, è uno di quei romanzi che dovrebbero essere consigliati a scuola (non so se oggi esista qualche insegnante abbastanza illuminato, io ne ho avuti pochi).

In un futuro non troppo lontano, dopo un olocausto nucleare (o la caduta di un asteroide – non è specificato), un padre e un figlio camminano lungo la strada in direzione dell’oceano. Da un flashback si scopre che la madre del bambino non ha retto la situazione venutasi a creare dopo il cambiamento e si è suicidata. L’uomo cerca semplicemente di tirare avanti, è chiaro che il mare sia solo un obiettivo come un altro. Tutto è grigio e cosparso di cenere, il cibo è rarissimo e i sopravvissuti molto pochi. È un mondo in cui è saltata ogni organizzazione sociale, i disperati che non sono morti fisicamente lo sono nell’animo e il cannibalismo è diventato per tanti la soluzione alla fame.

Il livello di disperazione che pervade il romanzo è tale da farti sentire lì, a fianco di questi due personaggi senza nome. Potresti essere tu a tenere una pistola carica, pronto a ucciderti, più che a uccidere, e a porre fine anche alla vita di chi non potrebbe andare avanti da solo. La strada è un’analisi perfettamente lucida di quello che potrebbe essere, di quanto tutto il nostro sistema sia precario e come basterebbe poco per ridurci a uno stadio primitivo. L’unico portatore di bontà, non corrotto dal male dell’età adulta, è il bambino, che cerca sempre di aiutare chi sta peggio anche quando questo può rappresentare un rischio. McCarthy ti trasmette benissimo l’angoscia che vive l’uomo, già dalle primissime pagine visibilmente malconcio (tossisce sangue), conscio che presto dovrà abbandonare il bambino a sé stesso. È un padre che insegna al figlio come si fa a spararsi un colpo in bocca, nel caso gli capitasse di dover evitare una morte atroce (vedi: mangiato).

La strada è un capolavoro, uno dei migliori romanzi che abbia letto ultimamente. Ora mi è venuta voglia di rivedere il film.
Ho scoperto tardi McCarthy, autore, tra gli altri, di Non è un paese per vecchi. Recupererò tutti e dieci i suoi romanzi, puoi starne certo.

“Esercizi di stile” di Raymond Queneau

Un uomo, dal collo lungo e con un cappello, discute a bordo di un bus (rigorosamente della linea S) con un vicino perché questo, a suo dire, gli pesterebbe il piede a ogni frenata. Dopodiché, sul più bello, lo stesso uomo prende e si siede in un posto libero. Un paio d’ore più tardi l’uomo, nei pressi delle stazione, si fa consigliare da un amico su come abbottonare il cappotto.

Esercizi di stile, di Raymond Queneau, riprende il breve racconto che hai appena letto e lo ripropone in 99 varianti diverse. Difficile rendere l’idea della quantità di stili e giochi letterari con i quali l’autore riesca a mettersi alla prova. Racconta la vicenda in diversi tempi verbali (presente, imperfetto, passato remoto…) ma anche in linguaggi diversi, dal “coatto” al comico, dal preciso all’impacciato, passando per sfide puramente tecniche come il lipogramma (eliminazione di una lettera), la litote (negazione del contrario) e davvero tante, tante altre. (Potrei elencarti lo stile botanico, quello medico, l’ingiurioso, il gastronomico, lo zoologico, gli stili relativi ai cinque sensi…)

Sebbene non conoscessi tutte le figure retoriche utilizzate, spesso è stato sufficiente leggere la variazione del racconto per capire quale fosse la regola applicata. Ad esempio, non conoscevo la parechesi, che si è però rivelata subito come l’accostamento di parole simili dal significato diverso. In definitiva Esercizi di stile ha un titolo più che azzeccato, si tratta di veri e propri esercizi letterari, molto interessanti soprattutto se hai la passione per la scrittura.

Traduzione (fantastica) e introduzione di Umberto Eco. Va detto che il testo originale è ovviamente francese (presente nella pagina a fronte) e Eco ha dovuto a sua volta giocare molto con la lingua per dare un senso logico anche a quei “giochi” che, per differenza linguistica e/o culturale, non sarebbero stati godibili in italiano. Ha fatto un lavoro straordinario, per farla breve.

Il libro ha circa 300 pagine (poco più della metà se, come me, non conosci il francese) e contiene anche una postfazione, più tecnica, di Stefano Bartezzaghi, utile se tu volessi affrontare la lettura con meno leggerezza (che comunque non guasta) e più consapevolezza linguistica e culturale.

Al contrario di quello che tu possa pensare, rileggere lo stesso racconto 99 volte non è noioso, anzi, quasi ti viene voglia di inventare un un nuovo esercizio, quello che manca. Se manca.

“American Gangster e altre storie di New York” di Mark Jacobson

Questo è un libro che ho trovato al bancone del Libraccio (sia santificato) durante l’edizione 2020 di Librixia (la fiera del libro di Brescia). Due euro e cinquanta centesimi. E meno male. Un acquisto avventato, forse, ma l’American Gangster di Ridley Scott, pur non essendo tra i suoi capolavori, mi era piaciuto (Denzel Washington è sempre cazzutissimo).

Il film racconta la storia vera di Frank Lucas, narcotrafficante di Harlem diventato un gangster, di quelli tosti, dopo la consueta gavetta e la tipica comparsa dal nulla. Una cosa alla Scarface, per capirci. Figo. L’opera di Scott, nasceva, è vero, da un articolo di Mark Jacobson (quello che dà il titolo al libro, pur occupandone solo trenta pagine). Il libro uscì praticamente in contemporanea con il film. Devo aggiungere altro?

Pura opera commerciale, questa raccolta di articoli (sono sette in circa duecento pagine) rappresenta un fantastico esempio di onanismo autoriale. Jacobson scrive molto, molto bene. È crudo, duro, sa far sorridere con il suo freddo cinismo. A tratti, nello stile, mi ricorda Palahniuk. Ma finisce lì, perché quello che racconta non è assolutamente interessante. Le diverse (sono diverse?) storie narrate non stimolano nessuna sensazione, se non, appunto, la lettura di qualche paragrafo particolarmente brillante.

Se dovessi riassumere di cosa parlano questi articoli non saprei nemmeno da che parte iniziare. Basterebbe leggere dieci righe a caso prese nel mezzo, e poi altre dieci e altre dieci ancora. È qualcosa di talmente frammentato da essere indescrivibile. Sembra un elenco della spesa.

Puttane, droga, gang, fattoni e magnaccia si mescolano senza sosta e senza un filo conduttore. Sembra che gli abbiano detto: «Ehi, sta per uscire il film, metti insieme altre pagine a caso insieme all’articolo su Frank Lucas e facciamo un po’ di soldi». Che peccato. Onestamente, non so se Jacobson abbia scritto anche dei romanzi. Se l’avesse fatto ne leggerei volentieri perché, ripeto, lo stile c’è ed è molto forte. Ma questa, questa è solo un’opera senz’anima figlia del mercato.

“L’uomo duplicato” di José Saramago

È da quando ho visto Enemy (2013) di Denis Villeneuve che ho in mente di leggere L’uomo duplicato (2002) di José Saramago. Bene, ora l’ho fatto.
Parto subito dicendoti che romanzo e film sono molto diversi, sebbene entrambi geniali. La lettura non ha fatto altro che confermarmi la straordinarietà del film di Villeneuve, psicologicamente molto più complesso rispetto al libro, dal quale è ispirato. Ma, come puoi immaginare dal titolo del post, non sono qui a parlarti di cinema, quindi…

Tertuliano Máximo Alfonso è un professore che insegna storia nelle scuole medie. Una vita ordinaria, un lavoro ordinario, una relazione ordinaria con Maria da Paz, che lui non sembra nemmeno amare molto. La monotonia dei suoi giorni viene sconvolta quando vede un film, consigliatogli da un collega, dove recita una parte minore un certo Daniel Santa Clara. Daniel è identico a Tertuliano, persino nella posizione dei nei. Tertuliano decide quindi di indagare, scoprire chi sia questo attore e conoscerlo. Mi fermo.

Della trama successiva non posso svelare molto, anche perché gli avvenimenti non sono tanti e quindi rischierei di rendere poco piacevole la tua lettura. Tuttavia posso anticiparti, senza timore di spoiler, che non stiamo parlando di un thriller, di un gemello separato alla nascita o qualcosa di simile. Siamo più dalle parti del doppelgänger, cioè del doppio non biologico, irrazionale e sconosciuto. Insomma, è un classico caso di “cosa succederebbe se…”.

Così come per Cecità (al momento l’unico altro romanzo che ho letto di Saramago), anche per L’uomo duplicato la situazione a-normale è la scusa utilizzata per sondare l’animo umano, la sua complessità e i suoi limiti. La vicenda in questo caso è molto più leggera e digeribile, certo, ma l’analisi dei pensieri del protagonista è altrettanto accurata, la sua coscienza sezionata e scomposta fin nei minimi particolari. Di Tertuliano si sa tutto, dietro ogni sua singola decisione c’è un preciso ragionamento che lo caratterizza come individuo e che viene spiegato in modo lineare senza lasciare dubbi. Si può dire che Saramago faccia una vera e propria autopsia dell’anima del protagonista.

Lo stile di scrittura è unico e non facile da digerire, io lo conoscevo e quindi ero preparato. La divisione in paragrafi è praticamente assente o, meglio, i paragrafi sono spesso lunghi diverse pagine. Lo stesso per le frasi, talvolta non si incontra un punto per decine e decine di righe. Il discorso diretto è un flusso continuo separato solo da virgole nel botta e risposta; ad aiutare a capire dove finiscano le parole di uno e inizino quelle dell’altro ci sono solo le maiuscole. A fronte di tutto questo devo dirti che, dedicata la giusta attenzione al testo (serve concentrazione), la comprensione non è difficile. Bisogna però essere pronti a entrare nel libro, senza altre distrazioni. Il flusso unico che ne esce è qualcosa di veramente spettacolare. Insomma, bisogna proprio essere bravi, per scrivere così e rimanere comprensibili.

Come già ti avevo detto per Cecità, terminata la lettura senti di aver appreso qualcosa e non, semplicemente, di esserti intrattenuto con della narrativa. Saramago ti stimola a pensare, la sua opinione fuoriesce dal testo (il narratore non la nasconde di certo) obbligandoti a prese di posizione e riflessioni alle quali non sei più molto allenato (stordito da tutta la spazzatura lobotomizzante che circola normalmente). Che dire, chapeau.

Adesso credo che mi riguarderò Enemy, per apprezzare le differenze abissali che lo rendono unico rispetto al romanzo, eppure doppio…

“Trilogia di New York” di Paul Auster

Trilogia di New York è una raccolta di tre romanzi (o racconti, vista la brevità) di Paul Auster, pubblicati per la prima volta tra il 1985 e il 1987. Si intitolano Città di vetro, Fantasmi e La stanza chiusa. Ora ti faccio un breve, brevissimo, breverrimo, riepilogo delle trame.

Città di vetro
Per capirci (sul livello di follia) la storia inizia con un uomo che riceve una telefonata durante la notte, chi lo chiama sta cercando l’investigatore Paul Auster… L’uomo, che è in realtà uno scrittore e vive già una sorta di sdoppaimento, sia con il protagonista dei suoi romanzi sia con lo pseudonimo con cui li scrive, decide di fingersi Paul Auster e accettare l’incarico, iniziando ad indagare sul “caso”.

Fantasmi
Blue, detective allievo di Brown, riceve l’incarico da White di pedinare e sorvegliare Black. Il pedinamento si ridurrà a un monotono appostamento nel quale Blue osserverà, dalle finestre del palazzo di fronte, Black seduto a un tavolo che scrive ininterrottamente su un taccuino. Blue inizierà a domandarsi se non sia lui stesso Black, osservato dall’uomo che scrive.

La stanza chiusa
Fanshawe sparisce lasciando dietro di sé, oltre una moglie e un figlio, romanzi e poesie mai pubblicate. Sarà compito di un suo amico d’infanzia far pubblicare le sue opere e sarà suo “dovere” anche sposarne la moglie. Ma Fanshawe sarà davvero morto come tutti pensano? Fino a che punto chi prende la vita di un altro non diventa l’altro?

Come tu avrai già capito (dal momento che sei così astuto e sagace da seguire il mio blog) Paul Auster utilizza trame assurde per indagare il tema dell’identità. Lo indaga così tanto da farti venire il mal di testa, da farti sanguinare il cervello. L’intera Trilogia trasuda il problema dell’individuo, della personalità, di ciò che potrebbe diventare qualcos’altro perché è descritto e pensato come fosse quel qualcos’altro. Io sono io finché ho il mio nome e mi comporto nel mio modo, ma se prendo il nome di un altro e mi comporto come quell’altro, quando smetterò di essere me e comincerò a essere lui? Eh? Sei turbato? Bene, è lo spirito giusto.

Paradossalmente la cosa che manca di più, in tutto questo insieme di paturnie mentali postmoderniste, è proprio New York. Non aspettarti descrizioni della Grande Mela perché non ne troverai: New York è presente solo nel titolo e in qualche breve accenno, per il resto le trame potrebbero essere ambientate ovunque. Quello che troverai, oltre allo studio sull’identità (casomai non si fosse capito), è un forte attaccamento alla professione dello scrivere, sempre presente in tutti e tre i racconti.

Tolto tutto questo, cioè il 90% dell’opera, quello che resta della Trilogia di Auster è l’ambientazione noir da detective-story, che per certi versi mi ha ricordato Pulp di Bukowski (ma senza il divertimento), soprattutto per quanto riguarda il nonsense delle varie situazioni. Attenzione però, niente gialli o trame alla Ellroy, tutti i racconti sono estremamente onirici, collegati tra loro da astrusi dettagli che non riescono (e non vogliono) creare una storia con un inizio e una fine. Se proprio volessi saperlo, solo nell’ultimo racconto la trama segue una strada leggermente più canonica e percorribile.

A questo punto mi chiederai: «Ma questo libro ti è piaciuto?».
No, non mi è piaciuto. Non è un libro che si legge facilmente o volentieri, lo prendi tra le mani ogni volta sapendo di fare harakiri e conscio che non avrai nessuna voglia di girare pagina. La voglia dovrai inventartela, crearla, per riuscire ad arrivare in fondo. A dire il vero non capisco nemmeno perché farsi del male e scriverlo, un libro così, non capisco dove l’autore abbia trovato la voglia di sviluppare una storia di questo genere. Tuttavia non si può dire che sia un libro stupido, non si può non ammirarne l’indubbia e geniale complessità.
E allora lo ammiro, disprezzandolo.

“Trilogia siberiana: Educazione siberiana – Caduta libera – Il respiro del buio” di Nicolai Lilin

Ti anticipo da subito che non ho intenzione di entrare nel vivo della polemica/indagine/complotto per stabilire se quanto racconta Nicolai “Kolìma” Lilin nei suoi romanzi sia realmente frutto della sua esperienza personale o meno. So che è tutto in discussione e che studiosi di vari campi e nazionalità hanno messo in dubbio perfino l’esistenza stessa degli Urca, la popolazione della Transnistria da cui lo scrittore afferma di essere discendente (una critica molto simile a quella messa in atto nei confronti del Papillon di Charrière). Io non ho una conoscenza abbastanza approfondita, né una competenza storica adeguata, per capire da quale parte stia la verità. Ho letto la Trilogia siberiana di Lilin perché mi ha sempre incuriosito, senza pretesa di capire dove finisse la finzione e cominciasse la realtà.
Così, giusto per saperlo, prima che te ne parli.

Questo pesante (solo nella sostanza, non nei contenuti) tomo della Einaudi è composto da circa 950 pagine e comprende tre romanzi, che ti descrivo brevemente qui di seguito.

Educazione siberiana
Il più famoso dei tre, anche grazie al bell’adattamento di Gabriele Salvatores con John Malkovich. Qui, proprio come nel film, è descritta l’infanzia e la giovinezza di Kolìma, cresciuto in una comunità di “criminali onesti”, cioè criminali con un alto senso dell’onore e del rispetto delle regole interne al gruppo. Kolìma impara a difendersi, lottare, fare tatuaggi, vivere in carcere e molte altre cose necessarie alla formazione personale di un criminale onesto. Ed è, infatti, proprio di un romanzo di formazione che si parla, il mio preferito della trilogia.

Caduta libera
Kolìma viene forzatamente arruolato per combattere la guerra in Cecenia. Questo è senza dubbio un romanzo di guerra, meno vario rispetto al primo ma comunque molto coinvolgente. Lo scrittore descrive diverse azioni militari avvenute durante il conflitto ceceno, entrando in particolari sia per quanto riguarda la cruenza della guerra di per sé, che per l’utilizzo e la tipologia delle armi. C’è più sangue, più morte e più violenza. Quello che ne esce è la mancanza di un confine preciso tra ciò che è legale e ciò che non lo è. Se nel primo romanzo potevi pensare “questi Urca sono dei mafiosi” ora Lilin sposta l’attenzione sulla criminalità a livello nazionale, riuscendo bene a far capire che la linea di demarcazione tra Bene e Male sia davvero labile quando entrano in gioco gli interessi economici dello Stato (e qui tutto il mondo è paese, diciamocelo).

Il respiro del buio
Nella prima metà del romanzo Kolìma, congedato dal servizio militare, soffre di PTSD (il disturbo post traumatico da stress) e fatica a riadattarsi alla vita quotidiana, anche perché nessuno vuole dare un opportunità di lavoro a un veterano. Questa è forse la parte più “stanca” di tutta la trilogia, ma dura solo un centinaio di pagine. Poi il protagonista si riprende, grazie a un periodo trascorso in Siberia immerso nella natura con il nonno, e trova un ingaggio come mercenario tramite un generale con cui ha mantenuto i contatti. Criminalità, Stato e interessi personali si mescolano, chiudendo il cerchio. La sensazione è quella che non si salvi nulla, che non esista la “pace” nel cuore degli uomini.

Ho letto Trilogia siberiana in poco più di una settimana, e questo dovrebbe bastare per farti capire quanto l’abbia trovato scorrevole e coinvolgente. Ciò che mi è piaciuto di più è stata la capacità di Lilin di addentrarsi nello specifico di ogni situazione, descrivere dettagli e caratteristiche che non conoscevo, rendendo i romanzi in qualche modo molto informativi. Si passa infatti dalle regole carcerarie “interne” alla tecnica dei tatuaggi, dalla diversa struttura di armi e pallottole alle norme che regolano la comunità degli Urca (esistente o meno che sia). Tutto viene approfondito, anche solo la modalità con cui si condivide il čifir (bevanda russa simile al té), senza tuttavia che la lettura diventi mai pesante.

Cercherò prossimamente di capire quanto di vero ci sia nei racconti di Lilin, ma in ogni caso credo che continuerò a leggerlo. Se anche dovesse risultare non essere un Urca, rimarrà comunque un narratore eccezionale.

“Le regole dell’attrazione” di Bret Easton Ellis

Bret Easton Ellis è un autore talmente prolifico che, dal suo esordio nel 1985 (Meno di Zero a soli 21 anni), ha scritto la bellezza di sette libri (…). Considera che l’ultimo suo lavoro, che non ho ancora letto, è Imperial bedrooms del 2010. In altri termini: sono otto anni che sta lavorando a un nuovo libro…
Le regole dell’attrazione (1987) è il suo secondo romanzo. A differenza del primo, Ellis ci infila dentro un po’ più di trama, che comunque non è il punto focale dell’opera. Te la racconto, così ti metti il cuore in pace, tu e anche i motori di ricerca.

La storia è racontata in prima persona dai tre protagonisti, Sean, Paul e Lauren, che si alternano nella narrazione. In aggiunta c’è anche una quarta figura, una ragazza non identificata, che però conosci solo attraverso le lettere anonime che scrive a Sean, di cui è innamorata. Bene, eccoci.
Contesto studentesco ricco di sesso, soldi e droga.
Lauren ama Victor, che però è in Europa e se ne sbatte. Sean ama Lauren, convinto che sia lei a depositare le lettere d’amore nella sua casella della posta. Paul ama Sean, con cui ha una storia per qualche tempo. Lauren non ama Sean. Sean non ama Paul. Tutti soffrono, tutti scopano con tutti.

Come il precedente, anche questo romanzo racconta una generazione alla deriva, senza alcun valore (ma ne esistono davvero?) e travolta dall’alcool e dalle droghe. L’amore per cui tutti si struggono è totalmente disgiunto dal sesso, il dolore infatti non impedisce i continui accoppiamenti dei tre studenti, ovviamente promiscui, con chiunque. Ellis descrive benissimo la mancanza di genere femminile/maschile. Per capirci: Sean è un beccafighe, si è trombato mezzo campus, ma ciò non gli preclude di avere una storia omosessuale con Paul, senza che questa crei particolari disagi a nessuno. E, sinceramente, era ora.

Ah, Sean, il fico strappamutande incallito, nel film omonimo (2002) tratto dal libro è interpretato da James Van Der Beek.


Scusa, non ho resistito.

Altra cosa che Ellis fa molto bene è mostrarti come ciò che spesso si creda gli altri pensino di noi sia davvero lontano dalla realtà. Sean, Paul e Lauren hanno un’idea precisa di quello che gli altri pensino di loro, che si rivela puntualmente sbagliata, senza che tuttavia se ne accorgano. Sono troppo concentrati su loro stessi per farlo. E così Lauren è convinta che Victor la ami quando nemmeno se la ricorda, Sean è sicuro che Lauren lo veneri quando per lei è solo una scopata e Paul crede che Sean sia innamorato di lui mentre per Sean, tra loro, c’è solo un’amicizia col bonus del sesso.
Ma la frase su cui dovevi porre la tua attenzione è sono troppo concentrati su loro stessi, perchè è questo il succo polposo del romanzo su cui riflettere. È questo che ti lascia qualcosa.

Sono a quattro su sette. Ora voglio American Psycho.

P.S. Nel frattempo ho visto Al di là di tutti i limiti, con Robert Downey Junior e James Spader, tratto dal primo romanzo di Ellis. Mi è piaciuto molto. Certo sente i suoi anni (1987) ma riesce a far vivere qualcosa della dissolutezza presente nel libro. E questo è un gran punto a favore.

I libri di Bret Easton Ellis:
Meno di zero (1985)
Le regole dell’attrazione (1987)
American Psycho (1991)
Acqua dal sole (1994)
Glamorama (1999)
Lunar Park (2005)
Imperial Bedrooms (2010)