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“Tutti i racconti Vol. 2 1954-1959” di Richard Matheson

Ho terminato ora questa seconda antologia di Matheson e credo che potrei ripeterti esattamente quanto già detto per Tutti i racconti Vol. 1 1950-1953 (ti rimando al post precedente, se desideri saperne di più), quindi non mi dilungherò troppo. Anche il volume relativo al periodo 1954-1959 contiene una varietà di racconti notevole, 500 pagine divise tra fantascienza, horror e qualche western, con alcune esplorazioni nel campo del thriller e del grottesco. Qualità altissima.

Una curiosità: è presente la riscrittura di uno stesso racconto – un western appunto – peraltro abbastanza lungo. È Va’ verso ovest ragazzo, rielaborato con il titolo Il conquistatore. Da lettore appare forse un po’ strano trovare due racconti praticamente uguali di seguito… ma se ami anche scrivere saprai apprezzare questa scelta editoriale.

Il mio racconto preferito: Una grossa sorpresa. La storia di un anziano che suggerisce a un ragazzo di andare a scavare in un campo una buca profonda tre metri. Oltre alla “grossa sorpresa”, c’è chiaramente molto di quello che poi si ritroverà in King, in questa storia.

Ho già anche il terzo e quarto volume della serie, a presto.

Libri che ho letto di Richard Matheson:
Io sono leggenda (1954)
Tre millimetri al giorno (1956)
Io sono Helen Driscoll (1958)
La casa d’inferno (1971)
Tutti i racconti Vol. 1 1950-1953 (2013)
Tutti i racconti Vol. 2 1954-1959 (2013)

“Nope” di Jordan Peele

Sarà difficile parlarti di questo film senza fare spoiler, ragion per cui a un certo punto ti avviserò e deciderai tu se andare avanti o meno nella lettura.
Nope è il terzo film di Jordan Peele dopo Scappa Get Out e Noi. Di cosa parla? Eccoci.

Oj ed Em, fratello e sorella, gestiscono un ranch specializzato nell’allevamento dei cavalli destinati ai set cinematografici. Il ranch è posizionato all’interno di una valle dove, fin dalla prima scena, accadono cose molto strane. Ad esempio cadono oggetti dal cielo (in apertura una moneta trapassa il cranio del padre dei due ragazzi), spariscono persone e ci sono cali di corrente. È il classico scenario da avvistamento UFO, ed infatti l’avvistamento avviene. Anche il “vicino di casa”, il gestore di un piccolo parco a tema cowboy, viene coinvolto in queste stranezze ed entra, così, nella storia. È l’occasione di una vita: riuscire a filmare un UFO darebbe una svolta agli affari. I due ci provano e io mi fermo.

Come per i precedenti due film del regista nero (non in quanto necessaria distinzione, ma poiché pare essere un dettaglio molto importante) l’idea è molto buona e il film funziona bene per i 3/4 del tempo, poi c’è il crollo. Il crollo totale. Ma facciamo un passo indietro.

Dicevo, Peele è nero e lavora con attori prevalentemente neri. Non solo, anche guardando i film dove lui è sceneggiatore e produttore e non regista, si trova sempre questo filo conduttore sulle sue origini (vedi Candyman o BlacKkKlansman). Il tema del gruppo etnico, delle minoranze, è molto sentito. Solo che – te lo dico subito – a mio parere Peele non è Spike Lee, ma è il prodotto del nostro tempo ricco di messaggi ma privo di contenuti. Ogni volta che esce un film di Peele pare sia una sorta di piccolo evento, una storia che vada studiata. La domanda che ti pongo è: se Peele non fosse nero e non trattase il tema delle minoranze, sarebbe lo stesso? La mia risposta è no. Mi dispiace, ma io trovo i suoi film perdibili, hanno tutti del potenziale ma c’è una grande incapacità di gestirlo. Peele è il prodotto del nostro Netflix culturale, è l’apparenza che supera di gran lunga i contenuti.

ALLERTA SPOILER
ALLERTA SPOILER

Anche l’idea successiva, quella per cui il disco volante non sarebbe un navicella aliena ma un animale che vive tra le nuvole, è in teoria buona e rappresenta sicuramente una novità. Il problema è che, come sempre, quando il non visto viene esplicitato finisce tutto in vacca. Dopo venti minuti di questa cosa che vola nel cielo – un ibrido tra una medusa e uno zeppelin sventrato, vagamente somigliante a una vagina – qualsiasi “magia del Cinema” decade e cominciano a sanguinarti gli occhi. Il monoespressivo Kaluuya non aiuta di certo, mentre scorrazza in groppa al cavallo a testa bassa per non guardare il mostro (eh sì, se lo guardi ti attacca).

Le tanto decantate critiche al sistema dello show business sono talmente esplicite che, a confronto, Zombie di Romero lanciava un messaggio criptico e nascosto.
Ho sentito vaghe associazioni tra Peele e Spielberg, ma non voglio nemmeno discuterne. Non scherziamo (e ricordati che io non sono un fan di Spielberg, è troppo ottimista e solare per i miei gusti).

È un peccato, perché Nope partiva davvero bene. Nelle inquadrature, nella storia, nelle ambientazioni. Poi però Peele, conscio della sua posizione, si adagia nella culla del nostro perbenismo che gli consente di fare poco e niente e non venire criticato. Che poi c’è il rischio che sembri tu stia criticando la giustamente intoccabile tematica delle minoranze e non un film, francamente, abbastanza assurdo.

Cosa mi è rimasto? Quasi niente. Sono giusto andato a rivedermi la cronaca nera dello scimpanzé Trevis, un evento che avevo dimenticato. Peele ne omaggia la vicenda mettendo in scena qualcosa di simile e mostrando uno scimpanzé che impazzisce sul set e massacra diversi attori. Tutto qui, nulla di più.

“Drive-in. La Trilogia” di Joe R. Lansdale

Drive-in. La Trilogia contiente i tre romanzi del noto ciclo horror-splatter-comico-grottesco di Joe R. Lansdale.
Nello specifico:
• Il drive-in (1988)
• Il drive-in 2 (non uno dei soliti seguiti) o Il giorno dei dinosauri (1989)
• La notte del drive-in 3. La gita per turisti (2005)
Un unico tomo, 540 pagine. Non per tutti ma…  cominciamo con un po’ di trama.

[Parte 1] Texas. Jack (protagonista e narratore) si reca all’Orbit (enorme drive-in da 4000 posti auto) con alcuni amici per la consueta rassegna horror del venerdì. Una cometa sfiora il drive-in e tutti gli spettatori si trovano “imprigionati” da un muro di oscurità (una sorta di The Dome, ma buio). Nel microcosmo del drive-in regna il caos, per un tempo indeterminabile (giorni? mesi? anni?). Violenze, stupri, cannibalismo, crocifissioni. Un fulmine colpisce due degli amici di Jack che diventano un essere unico: il Re del Popcorn. Il Nemico.
[Parte 2] Jack viaggia fuori dal drive-in con un paio di compagni, lungo una strada che pare non aver fine. Ci sono i dinosauri e “La città di merda”. In un mondo che non sembra essere più il Texas, gli unici sopravvissuti sono quelli che erano presenti alla famosa notte del drive-in. Tra questi un nuovo nemico: Popalong Cassidy e la sua testa-televisore.
[Parte 3] Qui Jack (e la sua nuova compagnia) naviga nel mare all’interno di un bus. Il bus viene inghiottito da un pesce gatto gigante nel quale vivono dei cannibali e delle creature del buio. Il bus viene cagato dal pesce gatto e Jack cerca di raggiungere una sorta di Stairway to Heaven che dovrebbe dare un senso a tutto.

Mi fermo, credo tu ti sia fatto un’idea…

Ti dico la verità, se questi romanzi non fossero stati scritti da Lansdale non mi sarebbero piaciuti. Il livello di delirio e di assurdità è tale che, a confronto, la Guida galattica per autostoppisti di Douglas Adams potrebbe essere stata creata da un ragioniere. Eppure in Lansdale c’è qualcosa di incredibile, una capacità di semplificare e alleggerire senza eguali. Le pagine volano, comunque, anche se in realtà della trama non te ne frega poi molto. Perché non c’è un limite a quello che Lansdale tira fuori, la blasfemia è solo la punta dell’iceberg. Tutto – TUTTO – può succedere (e succede) in questa storia. Jack che mangia frutti al piscio di cane. La fuga di un bus tramite il buco del culo di un pesce, con relativi morti annegati nella merda. Il Re del Popcorn che nasce dalla fusione di due persone, vomita popcorn e nutre così i suoi fedeli, dipendenti dal popcorn stesso. Un cannibale che parla con il cazzo in mano, sempre. Il sesso, il sesso ovunque. Senza mai essere eccitante o pornografico, chiariamoci. Mi pare che sia stato Bukoswski ad aver detto una cosa tipo: «Scrivo delle storie e poi, per vendere, ci infilo dentro le scopate». Ecco, così fa Lansdale con il Drive-in, ma senza l’erotismo. Tutti scopano con tutti. Costantemente. E poi… i dinosauri che attraversano la strada, le auto che non consumano benzina, gli alcolici distillati con alghe putride e sputo. Potrei andare avanti all’infinito.

La trilogia del Drive-in è solo il secondo libro (che poi sarebbero tre, ovviamente) di Lansdale che leggo, dopo il bellissimo La morte ci sfida. Intrattenimento puro al 100%, anche in questo caso. Un po’ troppo onirico per i miei gusti,  ma indubbiamente unico nel suo genere. Ho già da parte Fuoco nella polvere (primo della trilogia Ned la foca), ma se hai qualcosa da consigliarmi – magari uno stand-alone – è più che ben accetto. E sì, prima o poi comincerò anche la serie di Hap e Leonard, che pare essere il suo capolavoro. Dammi tempo.

“Tutti i racconti Vol. 1 1950-1953” di Richard Matheson

Ho appena terminato Tutti i racconti Vol.1 di Richard Matheson, che contiene i racconti scritti tra il 1950 e il 1953. Sono 600 pagine, un bel malloppone. La raccolta completa è composta da quattro volumi, tutti editi da Fanucci, per un totale di oltre 2000 pagine. Stamattina, peraltro, sono molto soddisfatto perché sono riuscito a recuperare anche il terzo – quello più raro, a quanto pare – e l’ho trovato nella stessa edizione tascabile degli altri che possiedo (il mio lato autistico ringrazia). Detto questo, avrai già intuito che, uno alla volta, li leggerò tutti. Te li alterno con altre cose, per non diventare monotematico, anche se potrei tranquillamente fare un’endurance e affrontarli in sequenza. Adoro Matheson, insieme a Bradbury (ti avevo parlato della sua autoantologia Cento racconti) è uno dei miei autori preferiti per quanto riguarda la narrativa breve di fantascienza (ma non solo, come vedremo).

Da dove iniziare… è difficile. Sono 34 i racconti contenuti nel Vol.1 e Matheson, come sempre, spazia tra diversi generi. Fantascienza, appunto, ma anche horror, grottesco, weird e fantasy. Forse è questo il suo primo pregio, la capacità di non annoiare mai, non fossilizzarsi su un singolo genere narrativo. Certo, la fascia cronologica (inizio anni ’50) porta con sé dei must irrinunciabili per gli autori dell’epoca, due su tutti Marte e i razzi spaziali (spesso diretti… indovina dove?). Matheson non fa eccezione e una piccola parte delle sue storie somigliano molto a quelle di Bradbury, per queste tematiche. Tuttavia, lui va oltre e già dal primo racconto, Nato d’uomo e di donna (quello che ho preferito meno dell’intera raccolta), lancia un chiaro segnale di ibridazione tra fantascienza e horror. Essendo questa una raccolta senza “esclusioni”, ci sono poi alcuni racconti che hanno un sapore vagamente sperimentale, dove la trama appare secondaria rispetto allo stile.
La varietà che Matheson propone è tale da lasciare spazio anche a un vero e proprio western, Occhi di sceriffo, che non ha proprio nulla di soprannaturale.

Farti un elenco di ciò che mi è piaciuto di più sarebbe forse noioso e inutile, anche se alcune storie, per qualche motivo, le ricordo meglio di altre. Come Eliminazione lenta, ad esempio, dove un uomo vede scomparire piano piano tutte le persone che conosce. O Gravidanza indesiderata, la storia di una donna che rimane incinta mentre il marito è via per lavoro, pur dichiarando di essergli sempre stata fedele. E ancora, L’astronave della morte, che parla dell’atterraggio di tre astronauti su un pianeta e del ritrovamento di una navicella troppo simile a quella su cui viaggiano, con dei cadaveri che sembrano proprio i loro.

Quello che più mi esalta in Matheson e l’utilizzo del bizzarro per studiare l’atteggiamento dell’uomo quando è costretto a confrontarsi con l’inconsueto. Una caratteristica che amo anche in Stephen King che, non a caso, dichiara spesso di essere debitore nei confronti dello stesso Matheson.

Fine della prima puntata, ci risentiremo presto con il Vol.2, quello dedicato ai racconti scritti tra il 1954 e il 1959.

Libri che ho letto di Richard Matheson:
Io sono leggenda (1954)
Tre millimetri al giorno (1956)
Io sono Helen Driscoll (1958)
La casa d’inferno (1971)
Tutti i racconti Vol. 1 1950-1953 (2013)

“Il giro di vite” di Henry James

Non leggo spesso romanzi gotici e non mi considero, quindi, un esperto del genere. Qui sul blog, infatti, ti ho parlato di pochi titoli. Senza andare cercare in archivio, mi vengono in mente Melmoth l’errante (1820) di Maturin e The woman in black (1983) di Susan Hill. Ovviamente, poi, c’è L’incubo di Hill House (1959) di Shirley Jackson che, peraltro, presenta molti punti di contatto con Il giro di vite (1898) di Henry James. Anzi, partiamo da questi, così almeno ci svaghiamo un po’ perché, come leggerai più avanti, di svago a questo giro ce n’è poco…

Sia il romanzo della Jackson che quello di James parlano di infestazioni, vere o presunte. Entrambi si collocano in quella linea sottile che divide il soprannaturale dalla malattia mentale (sì, lo so, questo è un piccolo spoiler ma non è grave). Inoltre, recentemente, i due libri hanno avuto delle trasposizioni – più “ispirate a”, che altro – per Netflix ad opera di Mike Flanagan, un regista che mi piace molto (se vuoi guardare una sua serie, però, scegli Black Mass). Mentre ho visto The haunting of Hill House prima di leggere il romanzo, con The haunting of Bly Manor è accaduto il contrario. Diciamo che, in qualche modo, a Il giro di vite ci arrivavo preparato. È incredibile: mi è piaciuta più la serie del romanzo (chi mi conosce sa che di serie ne guardo veramente poche e, in linea generale, odio questo tipo di format televisivo-fidelizzante-lobotomizzatore).

La trama è abbastanza conosciuta. Una istitutrice viene inviata a Bly Manor per prendersi cura di due bambini, Miles e Flora. La donna è affiancata da una governante, Mrs. Grose, che la sostiene e la aiuta in tutte le sue scelte. Miles è stato recentemente espulso da scuola, per motivi che non è dato sapersi. In realtà, entrambi i bambini si comportano, agli occhi dell’istitutrice, in modo strano/ambiguo. La donna si convince, così, che Miles e Flora siano segretamente in contatto con i fantasmi di due persone morte che avevano precedentemente servito a Bly (e che lei vede spesso apparire all’interno della proprietà). Mi fermo, per non svelare il finale, ma la trama è tutta qui.

Un pacco, un pacco mostruoso. Un libro che non ho mai avuto voglia di prendere in mano per vedere come proseguisse la storia. Ostico anche nello stile, che risente pesantemente del tempo passato. James è verboso, ridondante e, soprattutto, noioso (casomai non si fosse capito). So di stare sparando su un mostro sacro e intoccabile, ma questo è quello che penso. Il giro di vite è osannato da molti (uno su tutti, Stephen King) come uno dei migliori romanzi gotici mai scritti, ma io l’ho odiato fin dalle prime pagine. Semplicemente, non accade nulla. Mai. La protagonista, inoltre, è vittima di una costante insicurezza che la rende insopportabile. Una sorta di desperate housewife decontestualizzata.

Per completezza, devo dirti che la lettura di questo romanzo è doppia. La prima, la più semplice, è quella che lo ritiene una classica ghost story. La seconda, più ricercata (ma nemmeno troppo), è quella che mette in dubbio la sanità mentale dell’istitutrice e legge l’intera vicenda come se fosse la descrizione della sua pazzia (la storia è narrata da lei sotto forma di diario, quindi si conosce solo il suo punto di vista).  Non saprei quale delle due scegliere, ma spero nella seconda opzione, renderebbe il tutto meno banale.

180 pagine lette in una settimana. Per i primi due giorni mi sono imposto una lettura forzata di 50 pagine al giorno, poi la media è drasticamente calata… Peccato, mi aspettavo davvero tanto, dopo tutte le premesse.

“Il grande libro di Stephen King” di George Beahm

Sto per parlarti de Il grande libro di Stephen King di George Beahm ma, soprattutto, sto per scrivere una lettera d’amore. Tu lo sai bene quanto King sia importante per me. È sempre lì, che mi segue, che mi accompagna. È lì da quando ho cominciato a leggere davvero, con Gli occhi del drago (una scelta consapevole, non un’imposizione scolastica). È lì dal primo film horror che ho intravisto, quasi di nascosto. È lì dal primo libro che non ho potuto aprire (It) perché «sei troppo piccolo per quello». Come un parente, come un amico. Come un’eterna ispirazione. Mi ci sono laureato, con King (e non nel senso metaforico). Ho letto tutto, ma non tuttissimo (indietro: Il talismano, La casa del buio, La storia di Lisey) perché ho paura di cosa non-succederà dopo, ho paura che si possa fermare la ruota del Ka.

Ancora, non credo di essere stato chiaro.
Avrei voluto essere Mick Jagger, sì. Cantare su un palco, adorato come una divinità. Vivere una vita pienissima, mentre tutti si chiedono come io faccia a essere ancora vivo, tra droga, drammi ed eccessi.
Avrei voluto essere uno di quegli attori bravi e irresistibili. Un Robert Redford, un Brad Pitt. Uno di quelli che non devono “chiedere mai”.
Ma non avrei voluto nascere al posto di Stephen King, quello no. Mi sarebbe piaciuto, piuttosto, essere un suo amico, un vicino di casa. Quello con il quale condivide il pranzo della domenica, con cui beve una birra sotto il portico in una calda serata estiva. Quello che ha l’opportunità di apprendere dal Re. Perché io King lo ammiro davvero. Sono il suo fan numero uno (Annie Wilkes style).

Per inciso: lo so, lo so, che c’è tutta una pletora di pseudoletterati frustrati che ritiene King materiale da bancarella o da supermercato. Evidentemente non l’hanno mai letto. In ogni caso, per riassumere quello che penso di loro, ci sta molto bene una citazione da Scent of a woman del grande Al Pacino: «Dovunque siate laggiù… andate a fare in culo!»

Tutto questo per dire cosa? Te lo starai chiedendo, giustamente.
Tutto questo per dire che George Beahm, con il suo supermegamaxitomo da 640 pagine (scritto nemmeno-troppo-grande, avrebbero potuto essere 1000), ci è riuscito abbastanza bene a farmi sentire quel vicino di casa, quell’amico. Non lo dico così per dire, è la prima volta che un saggio su King mi fa questo effetto.

Di cosa parla Il grande libro di Stephen King? Di tutto, semplicemente. C’è la storia della vita di King, le interviste, indicazioni sulle edizioni da collezione, filmografia con aneddoti vari, siti internet e tante, tantissime immagini in bianco e nero (oltre a un inserto a colori con le tavole di Michael Whelan su La Torre Nera – sito dell’artista: MichaelWhelan.com).

Beahm è riuscito a emozionarmi anche dove è “già stato detto tutto”. Mi riferisco all’avvio della carriera del Re, quando riesce a vendere il suo primo (ma non primo, in realtà) romanzo, Carrie. Con King che risponde trafelato al telefono, nella scuola dove insegna, perché sa che la moglie Tabitha potrebbe chiamarlo solo per due motivi: è successo qualcosa a uno dei figli oppure è arrivato il telegramma di un editore (ricordiamolo: in quel periodo i King vivono in una casa mobile, senza linea fissa, Tabitha deve usare il telefono dei vicini).
Il resto, poi, è davvero storia.

Beahm intervista – e riporta interviste di – chiunque abbia a che fare con King. La più inaspettata è quella a Terry Steel, l’uomo che ha progettato e costruito la ringhiera e il cancello della casa di Bangor. Quello con i pipistrelli, per capirci. È interessante perché non è “gossip”, ma un riepilogo di quelle che sono le richieste e le esigenze pratico/artistiche di una famiglia di artisti (i King scrivono, tutti) e un loro punto di vista sulla quotidianità.
Tra le altre interviste, ci sono quelle agli amici, ai compagni di università, ai collaboratori, faccendieri vari, illustratori e tanti, tanti altri.

Ho scoperto che, oltre al noto e ufficiale StephenKing.com, esiste un sito creato da un fan svedese nel 1996 e riconosciuto dal Re in persona: LiljasLibrary.com. C’è tutto un mondo – enorme – fuori dall’Italia che vive di Stephen King. Librai che si occupano solo di prime edizioni e rarità del Re (uno su tutti il Betts Books).

Preso da frenesia irrefrenabile, ho acquistato pochi giorni fa un’edizione limitata di Night Shift (da noi pubblicato come A volte ritornano) della Cemetery Dance. La CD è di proprietà di Richard Chizmar, lo scrittore con il quale King ha scritto la serie di Gwendy (è appena uscito L’ultima missione di Gwendy – ovviamente l’ho già ordinato e te ne parlerò). La CD si occupa, tra le altre cose, di riproporre i romanzi di King in edizioni di pregio, numerate e illustrate. A proposito, Night Shift è illustrato da Glenn Chadbourne (GlennChadbourne.com) che, ovviamente, è presente ne Il grande libro di Stephen King, intervistato dallo stesso Beahm.

Devo fermarmi, ma potrei andare avanti in eterno. È una serie infinita di ramificazioni, quella che propone Beahm. A dirla tutta, è anche ben confezionata. La copertina gommosa e il piatto delle pagine in (quasi) rosso sangue mi fa venire voglia di mordere il libro. Ho divorato un saggio come se si trattasse di narrativa, che altro dire? Se ami King, devi avere questo volume.

Ho letto quasi tutti i libri di Stephen King (ne ho lasciati indietro tre, per dopo), ma quelli di cui ti ho parlato sul blog sono questi:
Blaze (2007, come Richard Bachman)
Duma Key (2008)
Revival (2014)
Mr. Mercedes (2014)
Chi perde paga (2015)
Il bazar dei brutti sogni (2015)
Fine turno (2016)
La scatola dei bottoni di Gwendy (2017, con Richard Chizmar)
Sleeping Beauties (2017, con Owen King)
The Outsider (2018)
Elevation (2018)
L’istituto (2019)
Se scorre il sangue (2020)
Later (2021)
Guns – Contro le armi (2021)
Billy Summers (2021)

I fumetti (sempre solo quelli dii cui ti ho parlato sul blog):
Creepshow (1982)
The Stand / L’ombra dello scorpione (2010-2016)

I saggi su King (idem, vedi sopra):
Stephen King sul grande e piccolo schermo di Ian Nathan (2019)
Il grande libro di Stephen King di George Beahm (2021)

“La morte ci sfida” di Joe R. Lansdale

Nell’introduzione di La morte ci sfida (Dead in the West, 1984) Lansdale, all’epoca al suo terzo romanzo, scrive qualcosa di fantastico. Lo fa rivolgendosi direttamente al lettore, come consolidata abitudine anche di Stephen King. Ti dice di non aspettarti “alta letteratura” da quello che hai tra le mani ma, piuttosto, di abbassare le luci, prendere dei pop-corn, goderti il temporale e prepararti ad affrontare un viaggio che sarà molto simile alla visione di un horror b-movie. Di divertirti, insomma. E io mi sono divertito, molto.

Il reverendo Jebidiah Mercer giunge nella cittadina di Mud Creek (Texas) con l’intenzione di riportare i peccatori sulla retta via. Non che il reverendo sia un uomo tanto retto – capiamoci – è dedito al whisky, non disprezza la compagnia femminile ed è molto, molto, molto veloce con la pistola. Ed è proprio mentre Jeb sta iniziando ad ambientarsi che la cittadina viene invasa dagli zombie. Il reverendo si allea con il dottore di Mud Creek, la di lui affascinante figlia e un giovane ragazzo che ambisce a diventare un pistolero, e cerca così di resistere ai non-morti. Mi fermo.

La morte ci sfida è un fantawestern, qualcosa di assolutamente appagante. Un omaggio pulp a più generi, leggero e veloce, che potrebbe essere letto tutto d’un fiato (per chi ha la fortuna di avere del tempo a disposizione, fortuna che io ho di rado). È esattamente così come te lo aspetti, non ti delude. Wikipedia mi informa che esistono anche un “prequel”, Texas Night Riders (credo ancora non tradotto, purtroppo), e un sequel, Deadman’s Crossing (che so essere uscito nell’antolgia Il grande libro degli zombie di Fanucci). Sarebbe davvero stupendo se i tre romanzi fossero riuniti in una trilogia, per poterli assaporare nella loro interezza. Perché io ci sguazzo in queste cose di sangue con uno stile un po’ eighties, ormai dovresti saperlo.

Questo è il primo libro di Lansdale che leggo, ma è nato un nuovo amore. Ti avviso, sai cosa ti aspetta.

P.S. Nel frattempo sto leggendo Il grande libro di Stephen King, di Beahm, ma lo alterno alla narrativa poiché è un (bellissimo, ti anticipo) saggio di 700 pagine, peraltro scritto abbastanza fitto. Te ne parlerò appena lo finisco.

“L’estate della paura” di Dan Simmons

L’estate della paura è un romanzo che ho cercato per molto, molto tempo. È fuori stampa, raro e parecchio costoso. Ho avuto la fortuna di trovarlo in un lotto composto da una decina di libri horror, che l’inconsapevole venditore (eBay) mi ha ceduto per una quindicina di euro. Quando va bene, L’estate della paura viene venduto attorno agli 80 euro (ma anche a 200, a seconda dell’edizione). L’edizione Gargoyle che ho letto ha notoriamente qualche problema di impaginazione, ciò mi ha costretto a non aprire mai il volume per più di 40° e ad aumentare la mia paranoia nei confronti delle pieghe di lettura. Comunque, se mai ti interessasse, sono riuscito a preservarlo in maniera perfetta, il libro sembra ancora fresco di stampa e non tende minimamente a spaginarsi. E no, non lo vendo.

Questo infinito preambolo perché L’estate della paura è considerato un romanzo di culto da tutti gli appassionati di horror. Qualcuno (non io, te lo dico subito) lo ritiene addirittura superiore a IT. In realtà, il libro di Dan Simmons è un evidente omaggio al capolavoro di Stephen King, con il quale condivide tante tematiche. Una per tutte è la ciclicità del Male, che si riforma e colpisce di generazione in generazione. Ma potrei andare avanti: anche i protagonisti di questo romanzo sono tutti preadolescenti; anche qui, tra loro, è presente una sola ragazza; c’è un bullo spaccone con il serramanico sempre in tasca; c’è l’ambientazione in un piccolo paesino dove tutti si conoscono… insomma, ci siamo capiti. Ripeto, tuttavia, si tratta chiaramente di omaggio (IT esce nel 1986, L’estate della paura nel 1991), non di scopiazzatura.

La trama è conosciuta. A Elm Heaven (Illinois), Mike, Jim, Kevin, Duane, Dale e Lawrence trascorrono le giornate correndo sulle loro biciclette. La Old Central School ha appena chiuso i battenti e l’estate è iniziata. Poi, però, accade qualcosa, un ragazzino sparisce e un inquietante furgone comincia a girare per le strade, con il suo carico di morte. Non mi dilungo, è il Male, ovviamente, e il suo epicentro è nascosto proprio nella Old Central.

630 pagine, un mese di lettura. Tanto. Troppo. Se dovessi dirti cosa, in particolare, non mi abbia convinto non saprei da che parte iniziare. C’è la storia, c’è la “formazione” (sia come genere letterario, che come gruppo di personaggi), c’è la sfida tra Bene e Male. Eppure L’estate della paura non mi ha coinvolto, sono rimasto freddo come un cadavere, privo di emozioni. Avrei voluto affezionarmi a questi ragazzini, piangere e gioire con loro (come con i “perdenti” di Derry) e, invece, niente, il vuoto. Lo stile di Simmons probabilmente non ha aiutato, l’ho trovato molto prolisso in tanti punti (l’autore sembra peraltro avere un’ossessione per le misure, che in certe descrizioni appaiono davvero ingombranti con costanti specifiche in metri e centimetri). Un peccato, perché le aspettative erano davvero molto alte (direi sui 107 metri e 34 centimetri).

Chiariamoci, L’estate della paura è un buon romanzo, godibile. Forse davvero, in qualche modo, mi aspettavo un nuovo IT e sono rimasto deluso. So che esiste anche un seguito, L’inverno della paura (che in realtà ha solo uno dei ragazzi come protagonista nell’età adulta, un po’ come il Danny di Dr Sleep per Shining), ma devo ancora capire se lo leggerò. Vedremo.

“Old” di M. Night Shyamalan

Ieri sera sono andato al cinema: un evento. L’ultima volta si parla di mesi fa, con il bellissimo Druk, ma era una proiezione in esterna, con un costo/biglietto umano. Ieri, invece, ero proprio “in sala”, per la modica cifra di 9 euro (che mi hanno subito ricordato come mai sono passato dall’andare al cinema una volta alla settimana a una ogni sei mesi). Comunque, per farmi ancora più male, ho scelto Old di Shyamalan, giusto perché Glass mi era piaciuto… (sono ironico, ovviamente).

L’idea di Old è molto buona, come lo sono spesso le idee di Shyamalan.
Un gruppo di 13 persone, residenti in un resort di lusso, vengono scortate e abbandonate in una spiaggia isolata. Lì, gli stereotip… scusa, i malcapitati si rendono presto conto che il tempo trascorre in modo diverso, forse a causa delle strane rocce che circondando la zona. In breve: mezz’ora equivale circa a un anno di vita. I segni più evidenti si notano subito sui bambini, che passano da essere preadolescenti ad adulti in poche ore. Insieme all’invecchiamento, naturalmente, anche le varie patologie e malattie accelerano la loro corsa (c’è una scena sull’osteoporosi che, nonostante tutto, merita molto). E qui mi fermo, un po’ per non spoilerare quel poco di trama presente e un po’ perché, a tutti gli effetti, finiscono anche le idee.

Non fraintendermi, Old non è brutto come Glass, ma è ben lontano dagli antichi fasti de Il sesto senso, Signs o The village. Si piazza lì nel mezzo, insieme a tutta la restante produzione del regista. Poteva diventare un gran bel film, aveva le carte in regola, tuttavia è successo ciò che (ultimamente) accade spesso alle pellicole di Shyamalan: implodono su una singola buona trovata. Tradotto: in questo film c’è solo una spiaggia dove le persone invecchiano velocemente, fine. Lo spiegone conclusivo non stupisce né aggiunge nulla al filone delle trame “gruppo-isolato-dove-succedono-cose”. Un vero peccato.

L’assenza di idee diventa “assordante” (perdonami il gioco di parole) proprio quando i novelli anziani cominciano a subire i sintomi più comuni dell’invecchiamento. La scena nella quale la moglie, ormai sorda, grida «Cosa hai detto?» al marito cieco è addirittura grottesca, un brutto incrocio tra una pubblicità dell’Amplifon e Non guardarmi non ti sento.

Insomma, sebbene Old sia piacevole a livello visivo, non porta nulla di nuovo nei contenuti. Se l’avessi visto sul televisore di casa avrei pensato alla solita mediocre produzione Netflix.
Purtroppo non è così.
(La locandina, però, è fantastica).

“Incubi” di Dean Koontz

Melanie, all’età di tre anni, viene rapita dal padre Dylan e per i sei anni successivi la madre Laura ne perde le tracce. Poi Melanie viene ritrovata mentre si aggira nuda e sola in mezzo alla strada. È scappata da una casa delle “torture” dove il padre e altri complici la sottoponevano a esperimenti mirati a raggiungere il completo controllo dell’inconscio, utilizzando una sedia elettrica e una camera di deprivazione sensoriale. Nella casa sono tutti morti, uccisi da qualcuno che possiede una forza sovrumana. Melanie è in stato catatonico e la madre, insieme al detective Dan Haldane, cercano di venire a capo di quanto accaduto. Man mano che le indagini procedono, e che vengono scoperte altre persone implicate negli esperimenti, i cadaveri cominciano a moltiplicarsi. Mi fermo.

Sesto romanzo di Dean Koontz che leggo (gli altri li trovi in fondo al post) e primo a non piacermi. I motivi sono tanti, forse troppi.

Il primo e più incisivo è sicuramente la prevedibilità. La storia è costruita per metà come un horror e per l’altra metà come un poliziesco/giallo. Chi compie gli omicidi?
[SPOILER] Se non fosse già intuibile dai primi capitoli, ci pensa una copertina ai limiti della legalità a fornire la risposta. Inaccettabile questa scelta, è un po’ trovarsi davanti la foto del maggiordomo con il coltello in mano. Non si fa. Pensavo fosse una scelta per sviare i sospetti, invece è solo una scelta del cazzo (quando ci vuole…). [FINE SPOILER]

Il secondo motivo è l’inutile lunghezza. 380 pagine per raccontare qualcosa che avrebbe richiesto meno della metà dello spazio. Concetti ripetuti svariate volte, pippe mentali e inutili descrizioni. Prolisso, punto. Ci ho messo una vita a leggerlo, non ho mai avuto lo stimolo a proseguire, non sono mai stato curioso.

Il terzo è la macchinosità. Di tutto. Della trama, dei ragionamenti, delle emozioni. I protagonisti arrivano ad accettare situazioni inaccettabili attraverso dubbie deduzioni logiche. Le difficoltà psicologiche vengono annullate dall’appiattimento intellettuale dei personaggi, che paiono tagliati con l’accetta. Mi ha ricordato quando si inventano le storie giocando tra bambini e ci si fa andare bene qualsiasi cosa: «Allora facciamo che tu non riesci a uccidermi perché io ho mangiato la caramella dell’immortalità». Certo, come no.

La sensazione è quella di un libro che sia stato scritto perché doveva essere scritto. Non c’è anima, non c’è passione. Un compitino svolto per la sufficienza.
Può succedere, capiamoci, ma sono contento di aver già letto altro di Koontz perché se fossi partito da Incubi mi sarei fatto un’idea sbagliata (un po’ come approcciare Stephen King partendo da Rose Madder).
Vedremo, ho Lampi e Intensity ancora sullo scaffale.

Libri che ho letto di Dean Koontz:
Il tunnel dell’orrore (1980)
La casa del tuono (1982)
Phantoms! (1983)
Incubi (1985)
Cuore Nero (1992)
Il luogo delle ombre (2003)