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“Quel fantastico giovedì” di John Steinbeck

Ho impiegato quasi un mese a terminare Quel fantastico giovedì. È in assoluto il peggior romanzo di Steinbeck che abbia letto, seguito da Pian della Tortilla, con il quale, insieme a Vicolo Cannery  – che non ho ancora avuto il coraggio di affrontare – compone la trilogia di Cannery Row (li ho elencati in ordine sparso, lo so).

Steinbeck è uno dei miei autori preferiti in assoluto, Furore e La valle dell’Eden rientrano sicuramente nella top ten dei miei romanzi preferiti di sempre. Non mi faccio nessun riguardo, quindi, a dirti che trovo lo stile della trilogia di Cannery del tutto inaffrontabile.

Un guazzabuglio di personaggi grotteschi e macchiettistici tentano in tutti i modi di fare sbocciare una storia d’amore tra lo scienziato Doc e la prostituta Suzy. Il realismo che caratterizza lo Steinbeck dei grandi capolavori è qui totalmente assente. La storia è inconsistente, il coinvolgimento è nullo e l’empatia tra lettore e personaggi non pervenuta.

Tempo perso, sono arrivato quasi alla lettura obliqua, cosa che di solito non faccio mai.

 

Libri di John Steinbeck che ho letto:
I pascoli del cielo (1932)
Pian della Tortilla (1935)
La battaglia (1936)
Uomini e topi (1937)
Furore (1939)
La luna è tramontata (1942)
La perla (1947)
La valle dell’Eden (1952)
Quel fantastico giovedì (1954)

“Il piccolo libro dell’investimento” di John C. Bogle

Proseguo nei miei studi finanziari e questa volta ho letto un libro che è sempre consigliato ovunque: Il piccolo libro dell’investimento scritto dal fondatore di Vanguard, John C. Bogle.

Sono 300 pagine molto fruibili e veloci, per nulla complicate. Per quanto riguarda i contenuti potrei semplicemente rimandarti a Diventare milionario con uno stipendio normale di Andrew Hallam, perché in fin dei conti Bogle dice proprio le stesse cose. Certo, ovviamente strizza molto l’occhio a tutto quello che riguarda Vanguard, ma i concetti di base non cambiano.

La regola è: investire in fondi indicizzati passivi – sia che siano azionari, sia che siano obbligazionari – ed evitare come la peste tutti i fondi a gestione attiva (quelli che consigliano i consulenti finanziari, in particolar modo se sono dipendenti delle banche).

Bogle spiega anche come costruire un portafoglio diversificato che abbia – si spera – buoni risultati nel tempo, senza diventare appassionati o ossessionati dall’andamento delle borse. Il Re è sempre lo Standard & Poor 500, punto di riferimento, faro e ispirazione per qualsiasi buon investimento.

Non molte novità rispetto a quello che ho già appreso, ma fa piacere sentire un’altra voce che snocciola altri dati e pone altri esempi. Che sia effettivamente questa la strada per il corretto investimento? Se così fosse, la logica sarebbe semplice, la parte difficile consisterebbe solo nel rimanere freddi come Clint Eastwood anche nei periodi di calo dei mercati e investire, investire sempre e comunque.

Libri che ho letto per accrescere le competenze finanziarie:
Padre ricco padre povero di Robert T. Kiyosaki (1997)
Capire l’economia for dummies di Roberto Fini (2014)
Il piccolo libro dell’investimento di John C. Bogle (2017)
Diventare milionario con uno stipendio normale di Andrew Hallam (2018)
Investire for dummies di Massimo Intropido (2020)

“Casi di emergenza” di Michael Crichton

Come ben sai, io non sono un amante delle serie TV, tuttavia ER – Medici in prima linea è sempre stata tra le mie serie preferite in assoluto. Ad essere onesto non ho mai visto tutte le stagioni, penso di averne viste 6/7, fino a poco dopo la morte del Dottor Greene, per capirci. Pochi mesi fa ho provato a ricominciare da capo su Prime ma Amazon, simpaticamente, mi ha avvisato che avevo un mese per vedere le tredici stagioni rimanenti prima che lo show venisse rimosso dalla piattaforma…

Ti dico questo perché ER è ispirato ai “racconti” (alle virgolette ci arrivo tra poco) di Casi di emergenza, libro che Crichton ha scritto mentre era studente di medicina, nel 1970. L’edizione che ho letto è stata ripubblicata nel 2006. In quarta di copertina (e anche in una strombazzante tagline sotto al titolo) si parla, appunto, dei “racconti” come se fossero racconti di narrativa. Ecco, non è vero. Ma non è proprio vero, chiariamolo. Si tratta di un abile stratagemma per vendere un libro che, altrimenti, sarebbe stato difficilmente acquistato dal lettore medio.

Mi spiego.
Casi di emergenza è un saggio che Crichton ha scritto, ripeto, a cavallo del 1970 e nel quale l’autore descrive il sistema ospedaliero americano con tutti i suoi pregi e difetti. Se già è difficile – ma potrebbe essere comunque interessante – leggere un volume che parla del sistema sanitario contemporaneo di uno stato diverso dal nostro, diventa parecchio ostico leggerlo se la situazione è cambiata da più di cinquant’anni.

Tolto qualche accenno alla storia della medicina, e le poche pagine che riguardano i cinque casi dei pazienti presi in esame nei cinque capitoli, Casi di emergenza si è rivelato essere un libro decisamente fuori tempo massimo. Crichton scrive sempre benissimo e su questo non ci piove, ma questa volta non basta, e non è nemmeno colpa sua.
Un vero peccato, soprattutto per la presa in giro.

Libri che ho letto di Michael Crichton:
Andromeda (1969)
Casi di emergenza (1970)
Codice Beta (1972)
Il terminale uomo (1972)
La grande rapina al treno (1975)
Mangiatori di morte (1976)
Congo (1980)
Sfera (1987)
Jurassic Park (1990)
Sol levante (1992)
Rivelazioni (1994)
Timeline – Ai confini del tempo (1999)
Stato di paura (2004)
Next (2006)
L’isola dei pirati (2009)

“Barbie” di Greta Gerwig

Che mese luglio, eh? Siamo tipo a cinque articoli sul blog, ne avrai le palle piene di sentirmi. Peraltro ritorno al cinema per due volte nel giro di una settimana, una cosa che non succedeva da almeno dieci anni (a 11 euro a film, un salasso economico nella città d’Italia più cara, per quella che ormai è una passione elitaria). Credo che quello relativo a Barbie, nella storia del blog, sia in assoluto il post più rosa e meno in target di sempre… Cosa mi ha convinto? Will Ferrell, ovviamente.

Ti preavviso che ci andrò leggero sulle tematiche, come fossimo al bar. Non ho la testa, in questo momento, per approfondire in modo più serio la cosa. Quindi mi concederò delle semplificazioni che tu accetterai di buon grado. Questa non è una democrazia.

Non ti parlerò della trama del film, diamo per scontato tu la conosca già, sai che non mi piace perdere tempo. Intanto però posso parlarti del pubblico: gli esseri umani sono, come sempre, orribili. I trailer mostrati prima della visione – una selezione del peggio in uscita questa estate – sono stati accuratamente selezionati per essero lo specchio della stupidità che ci si aspetta di incontrare in un’occasione del genere. Nonne vestite di rosa, mamme vestite di rosa, nipoti vestite di rosa. Una cosa da farti sanguinare i neuroni. Osservando i volti e gli abiti, ti riendevi conto di come la maggior parte delle donne presenti fossero il nemico principale di loro stesse, per quanto riguarda l’ambita parità di genere. Una frivolezza incredibile, soprattutto nel mostrare svariati centimetri di carne credendo che questo sia la “libertà”.

E qui viene la sorpresa. Già, perché Barbie è un film di gran lunga migliore della maggior parte del suo pubblico (ribadisco per la terza volta: la maggior parte, non tutto). Onestamente mi aspettavo la solita lezioncina perbenista e netflixiana sull’uguaglianza e la parità, appunto. Non è stato così. Della Gerwig avevo visto Ladybird, che però non ricordo. La cosa più terrificante è che sia la regista del prossimo e giustamente discusso Biancaneve senza i nani e questo mi ha creato, su di lei, un preconcetto che difficilmente, comunque, scalfirò.

Facciamoci un fuoristrada.
Questo dover legare le cose/persone/storie ai termini è di una idiozia colossale. Mi riferisco a Biancaneve, ovviamente. È solo marketing, non inventiamo altre stronzate. Dopo il presunto bacio-stupro del principe de La bella addormentata, ci mancava la rottura di cazzo sui diversamente alti di Biancaneve, che a quanto pare sarà anche senza principe. Chiariamoci, io non discuto le tematiche, non mi ci metto nemmeno. Io discuto sulla abominevole scelta ignorante di voler cambiare delle cose esistenti e farle diventare altro, mantenendone i nomi. Questo voler decontestualizzare un personaggio per forza, non ha alcun senso. Lasciamo Biancaneve lì dov’è, nel suo tempo, con i suoi errori, e facciamo altro. Qualcosa di nuovo, più giusto, più corretto. La verità, però, è che bisogna essere corretti ma guardare sempre al denaro. E questa è l’ipocrisia e l’incoerenza che caratterizza (quasi) tutta l’odiosa e inutile produzione cinematografica relativa a queste tematiche.

Torniamo a Barbie. Barbie non cade nel tranello e riesce a portare un messaggio in modo intelligente. C’è qualcosa di infra-genere nel modo in cui Barbie parla dell’attuale problema della diversità tra i generi (che poi, diversità, è un’altra di quelle bellissime parole che sono state demonizzate in favore di una visione superficiale). Perché anche Ken, come Barbie, è un po’ perso. È come se fosse l’essere umano a essere perso. Cosa che effettivamente è, visto quanto facciamo schifo e quanto siamo lontani dal concetto di evoluzione di specie.
Credo che la forza di questo film sia stata quella di dover viaggiare con il freno a mano tirato. Sì, perché Barbie è un film che può essere visto da un pubblico mooolto giovane, e questo avrò costretto la produzione a smorzare i toni. Paradossalmente, un messaggio meno esplicito e più leggero è diventato anche più intelligente, meno carico di finto perbenismo e più equilibrato. Più vero e reale, insomma.

Margot Robbie è perfetta nel ruolo e anche fisicamente. Ryan Gosling è perfetto nel ruolo e anche fisicamente. Purtroppo un pochino sottotono proprio Will Ferrell, che non esprime il suo potenziale al massimo. Un peccato, perché ci sarebbe stato un bel Ricky Bobby.

Nota per i miei studi di investimento: le azioni Mattel sono salite.

Note per i miei studi sulla specie: tanti discorsi ma la realtà è che non conta nulla, solo il denaro, speriamo di estinguerci presto.

“Codice Beta” di Michael Crichton

Come mi succede quasi sempre con Crichton, ho divorato le 230 pagine di Codice Beta in brevissimo tempo, giusto un paio di giorni. Scritto con lo pseudonimo di John Lange, il romanzo è datato 1972, è stato quindi pubblicato più di cinquant’anni fa. Questo è sempre utile ricordarlo per far comprendere l’abilità visionaria di questo autore che ha sempre saputo scrivere storie futuribili e caratterizzate da una fantascienza intelligente. Per spiegarmi è necessario ti racconti almeno un pochino di trama.

Nel deserto dello Utah avviene un furto su commissione, un ordigno chimico viene sottratto da un drappello di mercenari. Dietro il furto c’è il geniale e milionario John Wright, intenzionato a sconvolgere gli equilibri planetari. A dare la caccia al cattivo, un altro genio, John Graves. I due combattono una guerra psicologica senza fine, una sfida personale e scacchistica a colpi di QI.

Ecco, a leggere la trama sembra quella di un qualsiasi film degli anni Novanta o Duemila, ci manca solo il Bruce Willis di turno a risolvere la situazione. Il problema è che, come ripeto, questo romanzo è del 1972. Crichton ci infila dentro un livello di tecnologia e modernità che all’epoca era qualcosa di impensabile. Come sempre, Crichton, è un precursore. Se non fosse per la quasi totale assenza di collegamenti internet e di smartphone, la storia potrebbe essere stata scritta oggi. Il ritmo è incalzante, lo stile freschissimo, le immagini che ti si formano nel cervello non sono per nulla opacizzate dal tempo trascorso.

Però, ovviamente, è necessario tenerlo a mente, il tempo trascorso, per apprezzare questo gioiellino. Quello che mi piace molto di Crichton, peraltro,  è che sia ben evidente la sua crescita come scrittore. Qui il ritmo è forte e rionoscibile, ma la storia è ancora lineare e semplice, con pochi personaggi. La complessità è qualcosa che aggiungerà pian piano, andando avanti con i suoi romanzi negli anni successivi, senza mai togliere nulla, sempre addizionando qualità alla qualità.

Solo una cosa non mi piace: non mi mancano poi tanti suoi libri per aver letto tutto. Sulla mensola ho già pronti Preda, Casi di emergenza, In caso di necessità e Punto critico.

Libri che ho letto di Michael Crichton:
Andromeda (1969)
Codice Beta (1972)
Il terminale uomo (1972)
La grande rapina al treno (1975)
Mangiatori di morte (1976)
Congo (1980)
Sfera (1987)
Jurassic Park (1990)
Sol levante (1992)
Rivelazioni (1994)
Timeline – Ai confini del tempo (1999)
Stato di paura (2004)
Next (2006)
L’isola dei pirati (2009)

“Il più grande uomo scimmia del Pleistocene” di Roy Lewis

Era parecchio tempo che avevo Il più grande uomo scimmia del Pleistocene nella mia lista. Un romanzo che è una rivisitazione moderna della preistoria (oppure una rivisitazione preistorica della modernità). Roy Lewis è stato geniale, non c’è dubbio.

Forse non si ride così tanto come mi è capitato di leggere in giro, ma questo non è per forza un male. La storia è divertente, non propriamente comica, a voler essere pignoli.

La narrazione è in prima persona ad opera di Ernest, figlio, appunto, del più grande uomo scimmia del Pleistocene, Edward. Lewis presenta un micromondo di personaggi senza tempo che si scontrano nel Pleistocene allo stesso modo in cui potrebbero scontrarsi nei giorni nostri. Lo zio Vania, assolutamente reazionario, Edward, che ambisce a un progresso che elevi la specie e Ernest, che vorrebbe trasformare le nuove scoperte del padre in capitalismo.

Con estrema leggerezza, Lewis ti sbatte in faccia la piccolezza dell’uomo che, in fondo, non si è evoluto poi molto, se non in superficie. Perché una cosa è scoprire il fuoco, l’altra saperlo utilizzare per un fine “corretto”, un fine che ci porti tutti da qualche parte. Di esempi potrei fartene a centinaia, uno su tutti l’energia atomica, ma non credo che sia necessario… Per un essere umano così intelligente da inventare la ruota ce ne sono altri novantanove pronti a fracassarla sulla testa di qualcuno a caso. Il problema è che “la grandezza della specie” la fa la media degli individui che la compongono e non quei pochissimi che da quella media ci si elevano.

170 pagine velocissime, un piccolo capolavoro.

“Brevemente risplendiamo sulla terra” di Ocean Vuong

È davvero molto difficile parlarti di Brevemente risplendiamo sulla terra di Ocean Vuong, non so proprio da che parte cominciare. Dalla trama, forse, che poi una trama non è.

Il romanzo è una lettera che Little Dog scrive a sua madre Rose, raccontandole tutte le difficoltà e le esperienze che lui ha incontrato dal momento del loro trasferimento dal Vietnam agli Stati Uniti. Little Dog è anche l’unico anello di congiunzione tra Rose e nonna Lan, il solo che può aiutare le due donne – che non parlano inglese – in un impossibile tentativo di integrazione nello stile di vita americano. Nel bel mezzo di questa situazione, già complicata, Little Dog comincia anche a scoprire sé stesso e la propria diversità.

Ho letto parecchie recensioni su questo libro e molte si fermavano sul discorso relativo all’omosessualità. Alcuni lettori “maschi alfa”, particolarmente insicuri e bisognosi di affermare il proprio io, hanno trovato difficili le descrizioni dei rapporti sessuali tra Little Dog e il ragazzo che sarà il suo primo vero amore. Cercherò di essere delicato nei confronti di questi lettori, perché ognuno proviene da un vissuto differente e può essere che venga infastidito da cose che minino dei punti di riferimento ben precisi. Insomma, se uno è un coglione non è che si possa pretendere diventi intelligente con un libro, è forse più indicato che continui a trovarsi a proprio agio guardando i morti ammazzati in tv o i calciatori del cuore che vengono intervistati in mutande negli spogliatoi (molto virile, peraltro). Qui chiudiamo l’argomento.

Vuong possiede una capacità espressiva ed emotiva degna di pochi, questo è un fatto. È un autore in grado di leggere l’essere umano, di parlare in modo eterno riferendosi solo ai sentimenti e alle emozioni, lasciando fuori tutta la scenografia. Questo romanzo è estremamente poetico, al limite del sostenibile se stai cercando una trama canonica. Già, perché una trama non c’è, l’intero scritto salta da un punto all’altro, raccontando, più che le esperienze, le sensazioni che queste esperienze hanno suscitato.

Brevemente risplendiamo sulla terra non mi è piaciuto (boom), ma è un romanzo da leggere. È da leggere perché sfida dei limiti, i tuoi, perché ti fa sentire piccolo nel tuo modo di vedere le cose. Ti dice: «Ehi, guarda che profondità di lettura della vita ha questo ragazzo, tu saresti mai in grado di averla?». La risposta, spesso, è: «No».

Quindi, cosa non mi è piaciuto? Cercherò di fartelo capire.
Devi pensare a quell’amico che abbiamo tutti, quello che quando inizia a parlare apre mille argomenti contemporaneamente e si discosta dal discorso principale (chiamiamolo “ramo”) per arrivare a descriverti ogni singola variabile (chiamiamola “foglia”). Tu intanto sei lì, in apnea, che pensi “sì, ok, ma vienicene fuori, torna sulla via iniziale”. Ecco, Vuong scrive in questo modo. Poi – bisogna dirlo – chiude ogni “foglia”, rametto e fuscello per tornare a completare il ramo, ma è estenuante. Non nascondo di avere saltato spesso delle righe nella lettura, proprio per quella sensazione di ansia crescente e per il bisogno di concretezza e sintesi. Ma questo è il mio gusto, la mia preferenza di stile, e il contenitore/mezzo non può in questo caso cancellare il contenuto.

“Terrorea – Materia Corporis” di AA.VV.

Ok, in Terrorea Materia Corporis ci sono dentro anche io. Sarebbe saltato fuori, no? Quindi tanto vale dirtelo subito.
Fatto.
Sarò breve, perché è difficile parlare di un’antologia senza fare spoiler e preferenze tra i racconti – e gli autori – e lo è ancora di più, appunto, quando uno degli autori sei tu.

11 racconti horror accuratamente selezionati dal curatore – Marco Marra, scrittore ed editor – affinché presentino come tema comune quello del “corpo”. Un corpo a volte fisico, altre psicologico, altre ancora quasi teologico.

Edita da Horti di Giano, l’antologia Terrorea è il perfetto esempio di come un progetto possa ben funzionare grazie alla passione. 200 pagine che trasudano, non tanto sangue, quanto amore per il macabro e la scrittura. E, naturalmente, un misto di stili diversi e interessanti.

Sono contento di esserci (il mio racconto si intitola Io so che tu sai che io so) perché fare parte di un volume come questo significa essere stati selezionati per qualcosa di “particolare”. L’edizione è, infatti, curata nei minimi dettagli e la qualità si percepisce in ogni piccola scelta (una su tutte la copertina fighissimamente cronenberghiana di Riccardo D’Ariano).
E se tra queste scelte ci sono anche io, beh, che dire…

“Le leggi della frontiera” di Javier Cercas

Circa un anno fa ho visto sul temibile (qualitativamente parlando) Netflix il film di Daniel Monzón, Le leggi della frontiera, appunto. Ricordo di essere rimasto sorpreso, come mi accade sempre quando trovo qualcosa di decente su una piattaforma che, ormai, non distribuisce più nulla che non sia serializzato e di scarso spessore (ok, la smetto). Comunque, ho lasciato decantare la cosa finché la trama del film si è annebbiata nella mia memoria, abbastanza da poter leggere con curiosità il romanzo omonimo di Javier Cercas dal quale il film è stato tratto.

Prima parte.
Fine anni 70, fine franchismo, Gerona. In una città divisa in due tra chi ha e chi non ha, si muovono le prime bande giovanili, composte da criminali (reietti, immigrati, emarginati) provenienti dalle baraccopoli al di là del fiume Ter. Ignacio Canas, bravo ragazzo dalla parte “giusta” del confine, rimane affascinato da quello che pare, a tutti gli effetti, essere un capo banda, Zarco, poco più grande di lui e, soprattutto, da Tera, bella ragazza facente parte del giro di Zarco. Per Ignacio comincia un’indimenticabile estate di rapine, fughe, amori e avventure.
Seconda parte.
Vent’anni dopo, Ignacio è diventato un avvocato di successo, uno di quelli che non perde mai. Zarco è in carcere e ha sulle spalle il peso del mito mediatico del primo capobanda del dopofranchismo. Tere è, come sempre, inaffidabile. Ignacio è costretto a rivivere quell’estate di anarchia e scoprire se valga o meno la pena di mettere la sua carriera in gioco per salvare (e scarcerare) quel poco che rimane di Zarco. Soprattutto, scoprire se valga la pena mettere la sua vita in gioco in nome dell’amore (vero/idealizzato) per Tere. Mi fermo.

Il romanzo è raccontato sotto forma di narrazione diretta dello stesso Ignacio (al 90%, con brevi capitoli raccontati da altri personaggi secondari) per un ghost writer che deve scrivere un libro sulla vita del “mito” Zarco. La storia è fortemente divisa in due parti, tanto che il film di Monzón ne racconta solo la prima (che, effettivamente, starebbe in piedi anche da sola). Quindi si può parlare di un romanzo di formazione unito a un dramma carcerario/giudiziario. Se mi conosci, sai già quale parte ho preferito…
L’estate di Ignacio è coinvolgente e narrativamente potente, con tanto di riscatto sociale e fuga da un’esistenza apparentemente dorata ma che nasconde problemi di bullismo (subito) e incomprensioni familiari. Il dramma carcerario, invece, mi è parso un pochino prolisso e ripetitivo, tanto che un taglio del 30/40%, a mio parere, non avrebbe guastato. Sintesi: ho letto in tre giorni le prime 200 pagine e in dieci le restanti 200.

Nonostante questo, Le leggi della frontiera è un romanzo che ti consiglio, senza ombra di dubbio. Il racconto della giovinezza di Ignacio, Tere e Zarco è così forte e comunicativo da mettere in ombra la “normale” vita adulta degli anni successivi. Ma forse è proprio questo che Cercas voleva mettere sul tavolo (anche nei ritmi narrativi): il contrasto tra l’idealizzazione, la giovinezza, e la vita reale che attende dietro l’angolo. Lo scontro tra un futuro incerto e ancora aperto e un’inevitabile esistenza canonica, quasi già scritta.
Mi pare che ci sia riuscito molto bene.

“L’isola del tesoro” di Robert Louis Stevenson

Ultimamente non ho molta voglia di leggere, sono parecchio demotivato. So che succede e non mi preoccupo – sono ancora lontano dal lobotomizzarmi bramando come obiettivo di vita la scempions di turno – tuttavia è un dato di fatto che sia passato dal leggere un libro in tre giorni a più di un mese. Ho scelto L’isola del tesoro (1883) proprio per cercare di uscire da questa impasse, fallendo. Sulla carta c’era tutto: letteratura per ragazzi, avventura, grande successo, eppure… eppure.

Di Stevenson avevo letto solo Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde e ricordo mi fosse piaciuto. Certo, lì era presente un tema forte, eterno, il Bene contro il Male nella natura umana. In più mi era piaciuto moltissimo L’isola dei pirati di Crichton, quindi tutto faceva presagire a un’ottima commistione tra un autore apprezzato e un genere interessante.
Avrai già capito che tutto questo preambolo nasce da una delusione, non la tirerò per le lunghe.

La trama è nota (vorrei ben vedere!) e rivista in varie opere successive, in tutte le salse. Un giovane ragazzo, Jim, entra in possesso di una mappa, poi c’è il viaggio sulla nave in cerca dell’isola e del tesoro, l’ammutinamento, i combattimenti, ecc.
Devo dire che l’inzio del romanzo, con l’arrivo dell’enigmatico marinaio nella locanda di Jim, mi aveva conquistato. Il senso di mistero e la tensione erano palpabili e “moderni”, in qualche modo. Tuttavia, dopo il breve intermezzo del viaggio in nave fino all’isola, il romanzo vira verso un continuo botta e risposta tra ammutinati e “buoni”, diventando poco coinvolgente, ai miei occhi. Le battaglie e gli scontri con il moschetto non suscitano in me nessun interesse, c’è solo la voglia di vedere come vadano a finire per poter procedere con la trama e arrivare al punto successivo.

Lo so, lo so, che sto parlando con leggerezza di un grande classico. Mi rendo conto, tuttavia, che questo sia un mio limite, una preferenza personale. Stevenson mi piace nello stile di scrittura, lo trovo più godibile rispetto a Verne (per rimanere tra i giganti dell’epoca), del quale però apprezzo maggiormente le trame, più coinvolgenti.

Non lo so, mi aspettavo più mistero, una tensione quasi soprannaturale, che non ho trovato. È tutto alla luce del sole, tutto esplicitato. Ho avvertito poco la solitudine del mare, la solitudine dell’isola. In poche parole, sono rimasto fermo, non ho viaggiato. Mi dispiace.

Ma la verità, temo, è che io sia ormai troppo vecchio per apprezzare qualcosa che farà sicuramente brillare gli occhi a un ragazzino alle prime letture.

In tema pirati/mare ho sullo scaffale La trilogia del mare di Golding. Attenderò un po’ prima di affronatarlo. Credo che ora leggerò Le leggi della frontiera di Javier Cercas.