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“Endurance” di Alfred Lansing

L’incredibile viaggio di Shackleton al Polo Sud.

Che libro, che avventura, che storia incredibile. Questo è qualcosa che DEVI leggere, te lo dico subito, senza mezzi termini. Un racconto di altri tempi, altri valori, un racconto di vita vera, vita che vale la pena di essere vissuta. Trecento pagine di una vicenda irripetibile ai giorni nostri, nelle medesime condizioni. La ricostruzione del giornalista Alfred Lansing utilizza documenti dell’epoca e i diari dei partecipanti alla spedizione e ti fa salire a bordo dell’Endurance, insieme a Sir Ernest Shackleton.

endurance relitto
Endurance tra i ghiacci

1 agosto 1914, Shackleton e un equipaggio di ventisette uomini partono diretti verso il Polo Sud, a bordo della goletta Endurance. L’obiettivo è quello di attraversare, poi, l’Antartide a piedi, per primi nella storia. Le cose non vanno per il verso giusto e questi uomini si trovano bloccati tra i ghiacci, dove l’Endurance viene prima stritolata e poi affonda (il relitto è stato recentemente individuato a 3000 metri di profondità). Seguono mesi di sofferenza, cammini forzati e soste su banchi ghiacciati in balia delle correnti. Un’isola, una speranza, ma non è la fine: è inospitale. 22 uomini restano a terra, cibandosi di foche e pinguini, 6 – Shackleton compreso – ripartono su una baleniera da sei metri e attraversano 650 miglia del mare più difficile del pianeta, con onde da 30 metri e nessun tipo di riparo. Non è ancora finita, devono anche attraversare a piedi un’isola con cime da 3000 metri per raggiungere una zona frequentata da altri esseri umani. Un’odissea interminabile che, nel complesso, giunge a conclusione due anni dopo la partenza.

Questa è l’avventura vera: il non sapere cosa ti troverai di fronte. Nessuna tecnologia, temperature a -30°, tempeste di ghiaccio. Shackleton e i suoi uomini hanno fatto cose impossibili, anche per l’uomo moderno, in anni in cui il GPS sarebbe comparso solo nei libri di fantascienza. Hanno dovuto anche sacrificare 60 cani che sarebbero serviti a trainare le slitte, alcuni di questi sono stati mangiati nei periodi in cui foche e pinguini migravano altrove. Non è il paradiso degli animalisti, certo, ma offre una buona idea del livello, non tanto di disperazione, quanto di determinazione nella sopravvivenza.

endurance relitto
Endurance relitto

endurance relitto

Due anni interi tra i ghiacci. L’agonia di chi aspetta a casa e perde la speranza. Il non sapere di quei 22 uomini lasciati indietro che attendono i 6 partiti sulla baleniera, senza in realtà essere certi se questi arriveranno mai da qualche parte o se nessuno tornerà più. Gli arti che si congelano, le infezioni e, ancora, il freddo, il freddo vero. I vestiti bagnati, sempre bagnati. I sacchi a pelo che si sfaldano per l’acqua di mare che li corrode.

Un resoconto di 300 pagine può solo fare vagamente immaginare quello che sia accaduto e la dimensione dell’avventura e la forza di questo equipaggio e del suo capo. Ripeto: vite vere, vite degne di essere vissute.
E una dimensione epica che probabilmente, oggi, non esiste più.

 

Libri sul genere storie vere/sopravvivenza estrema che ti consiglio perché mi sono piaciuti molto (ecco perché non c’è Walden di Thoreau nell’elenco):
12 anni schiavo di Solomon Northup (1853)
La verità sul Titanic di Archibald Gracie (1913)
Endurance di Alfred Lansing (1°ed. 1959 – Tea 2009)
Papillon di Henri Charrière (1969)
Tabù di Piers Paul Read (1974)
Verso il Polo con Armaduk di Ambrogio Fogar (1983)
127 ore di Aron Ralston (2004)
Wild di Cheryl Strayed (2012)
Fuga dal Campo 14 di Blaine Harden (2012)

Nella serie Exploits di Corbaccio:
La conquista del K2 di Ardito Desio (1954)
Nelle terre estreme di Jon Krakauer (1996)
Aria sottile di Jon Krakauer (1997)
Z – La città perduta di David Grann (2005)

“Z – La città perduta” di David Grann

C’è stato un tempo in cui l’avventura era Avventura e l’esplorazione era Esplorazione. Un tempo senza satelliti, GPS, elettronica o tecnologia avanzata. Un tempo nel quale chi partiva non sapeva se si sarebbe trovato ad affrontare una montagna, un lago o una pianura. Questo è stato il tempo di Percy Harrison Fawcett, uno degli ultimi veri esploratori della nostra storia, scomparso nel 1925 in Amazzonia e mai più ritrovato (nonostante i tentativi perpetuati fino a, praticamente, i giorni nostri). L’ultimo Indiana Jones, verrebbe da dire, inviato per conto di Sua Maestà e della Royal Geographical Society a ritracciare parte dei confini del Sud America, in una terra misteriosa e terribilmente ostile. Ossessionato dall’idea di trovare la città di El Dorado, Fawcett è tornato in Amazzonia più volte, fino all’ultima, fatale, insieme al figlio ventiduenne Jack, quando sono stati inghiottiti dalla giungla e nessuno ha più saputo nulla di loro (teorie disparate a parte).

Ho scoperto  Z – La città perduta dopo aver visto il film Civiltà perduta di James Gray, ispirato proprio al libro del giornalista David Grann. Grann, peraltro, al momento è particolarmente famoso poiché l’ultimo film di Scorsese, The killers of the flower moon, è tratto da un altra sua opera d’inchiesta. Il giornalista ha ripercorso il tragitto di Fawcett in Amazzonia e, nel frattempo, ha sapientemente ricostruito la vita dell’esploratore recuperando diari e scritti sparsi per il mondo, tra i parenti di Fawcett e le biblioteche. Il libro alterna le due avventure in modo avvincente, senza mai annoiare. Uno dei figli di Fawcett, anni dopo la scomparsa del padre, ha anche pubblicato una sorta di diario dell’esploratore, intitolato Exploration Fawcett, che cercherò di trovare.

Come ti dico sempre, c’è qualcosa che mi affascina e mi calamita in queste storie di sopravvivenza e morte, non so come mai. È interessante perché ho scoperto che Corbaccio ha tutta una collana (Exploits) dedicata a questo genere e peraltro un paio di titoli di Karkauer, Nelle terre estreme e Aria sottile, li ho già letti. Voglio recuperare anche Endurance di Lansing, quindi presto ne riparleremo. In realtà li recupereri tutti, ma si parla di oltre 170 titoli.

Fawcett era una sorta di precursore destinato a fallire, probabilmente non sarebbe riuscito a trovare l’El Dorado nemmeno passandoci sopra, poiché in Amazzonia tutto è estremamente deperibile e i resti di una civiltà di secoli prima sono/sarebbero andati distrutti. Eppure, stando alle ricerche di Grann (e non solo), Fawcett non aveva sbagliato le sue teorie. Nel mezzo del verde, qualcosa di grosso pare esserci stato, prima che gli Indios venissero sterminati dal “civilizzato” uomo europeo e dalle sue malattie.

C’è qualcosa in Percy Fawcett che lo rende unico. Qualcosa che rende la sua vita degna di essere vissuta, più di quella di molti altri che calpestano, o hanno calpestato, inutilmente, questo nostro pianeta. Sarà l’ossessione, sarà il sogno, sarà l’eterna ricerca. La sua fine è avvolta nel mistero, ma la sua esistenza ha di certo avuto un significato.

 

Libri sul genere storie vere/sopravvivenza estrema che ti consiglio perché mi sono piaciuti molto (ecco perché non c’è Walden di Thoreau nell’elenco):

12 anni schiavo di Solomon Northup (1853)
La verità sul Titanic di Archibald Gracie (1913)
Papillon di Henri Charrière (1969)
Tabù di Piers Paul Read (1974)
Verso il Polo con Armaduk di Ambrogio Fogar (1983)
Nelle terre estreme di Jon Krakauer (1996)
Aria sottile di Jon Krakauer (1997)
127 ore di Aron Ralston (2004)
Z – La città perduta di David Grann (2005)
Wild di Cheryl Strayed (2012)
Fuga dal Campo 14 di Blaine Harden (2012)

“Indiana Jones e il quadrante del destino” di James Mangold

Sono andato a vedere l’Indiana Jones semi-apocrifo (poiché l’unico non girato da Spielberg, ma da James Mangold) e devo dire che, tirando le somme, mi è piaciuto.
♫ Nostalgia, nostalgia canaglia… ♪♪
Peraltro una nostalgia da godere e spremere fino all’ultima goccia, perché dubito rivedremo Harrison Ford vestire i panni di Indi, salvo rivisitanzioni come Indiana Jones e la prostata di fuoco.
Ti tolgo subito il dubbio: Indiana Jones e il quadrante del destino è di certo mooolto meglio de Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo (non che ci volesse poi tanto eh).

La trama io non te la racconto, mi rifiuto. Se sei qui significa che la conosci già. C’è un oggetto da recuperare, un mistero da svelare, i nemici nazisti (sebbene il film sia ambientato nel periodo dell’allunaggio) e un po’ di soprannaturale. Insomma, c’è tutto quello che serve a caratterizzare un Indiana Jones degno della trilogia “classica” (e no, niente alieni fortunatamente, questa volta).

Nell’intro e in un paio di flashback la giovinezza di Harrison Ford è ricostruita in computer grafica e devo dire che la cosa non pesa troppo. Anche se la ricostruzione non è proprio eccellente, l’Indi “finto giovane” appare un pochino appesantito e gonfio in viso, come se stesse facendo una leggera cura cortisonica. Chissà perché non sono riusciti a riprodurlo uguale uguale ad allora, mi chiedo, in fondo la tecnologia ormai dovrebbe esserne in grado.

Quello che manca è un po’ di epicità nell’amarcord, anche dove avrebbe potuto esserci. Una scelta voluta? Boh. Non ti corre mai quel brivido lungo la schiena o non ti viene il groppo in gola in stile Top Gun Maverick, per capirci.
Anche nei titoli di testa, dove sarebbe stato facile richiamare l’emotività con il noto lettering arancione o una musica più “pompata”, passa tutto in sordina. Anzi, a dirla tutta, quando il titolo compare sembra più l’inizio di una qualsiasi puntata di MacGyver, tanto la scelta è priva di personalità.

Ford se la cava, non è mai ridicolo, forse grazie al fatto che il suo personaggio sia sempre stato abbastanza autoironico (o forse perché è un attore con i controcazzi come non ne fanno più). Non spinge nemmeno troppo sul pulsante della vecchiaia, errore comune e noioso nelle ultime rivisitazioni di serie note come Arma Letale o Bad Boys.
Mikkelsen è un attore in grado di dare moltissimo e io lo adoro, però qui l’ho trovato un nemico abbastanza anonimo.
Banderas è inutile come in molti dei suoi ultimi film.

Un buon compito per Mangold, ben riuscito. Avrei voluto Spielberg? Ovviamente sì, come chiusura sarebbe stato doveroso. Non mi sono commosso come avrei voluto, ma te lo consiglio lo stesso, non c’è dubbio.

Ti lascio in un modo inconsueto, con la mia personale classifica in ordine di preferenza:
Indiana Jones e l’ultima crociata
Indiana Jones e il tempio maledetto
I predatori dell’arca perduta
Indiana Jones e il quadrante del destino
Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo

“Timeline – Ai confini del tempo” di Michael Crichton

Se mi segui sai che quando ci metto molto a leggere un libro non è un buon segno. A leggere Timeline – Ai confini del tempo ho impiegato diciassette giorni. È un periodo intenso per me, non ci piove, tuttavia questo romanzo di Crichton non si è fatto amare particolarmente, è un fatto.
Dal romanzo è stato tratto anche un film (omonimo, 2003) che non ho mai visto, con Paul Walker e Gerard Butler, di Richard Donner. Proverò a recuperarlo.

Trama.
Una squadra di storici viene inviata, dal presente, nel XIV secolo per recuperare un professore rimasto bloccato in Dordogna (Francia). Il tutto è organizzato da un’azienda all’avanguardia nello studio dei flussi temporali e dei multiversi (ho semplificato). Seguono avventure, duelli, inseguimenti. Spade, Medioevo e armature, insomma.

Ecco, appunto, duelli e inseguimenti. Troppi, decisamente troppi. È tutto uno scappare e battagliare, per 460 pagine. Non posso dire che il romanzo sia scritto male (ci mancherebbe, è sempre Crichton) o che non sia “divertente”, tuttavia manca proprio di mordente, non sei mai curioso di scoprire come proseguirà la storia. È un malloppo troppo lungo, con così poco intreccio, duecento pagine in meno avrebbero giovato. Forse il formato più corretto, per la storia narrata, è proprio quello del film, ti saprò dire.

P.S. Non leggo molti romanzi storici poiché non mi ritrovo molto nel genere, non mi appassiona. Questo, forse, ha contribuito a rendere Timeline meno digeribile.

Libri che ho letto di Michael Crichton:
Andromeda (1969)
Il terminale uomo (1972)
La grande rapina al treno (1975)
Mangiatori di morte (1976)
Congo (1980)
Sfera (1987)
Jurassic Park (1990)
Sol levante (1992)
Rivelazioni (1994)
Timeline – Ai confini del tempo (1999)
Next (2006)
L’isola dei pirati (2009)

“Viaggio al centro della Terra” di Jules Verne

C’è un tempo per tutto. Purtroppo, mi è ormai chiaro, che il tempo per leggere Verne sia passato da un bel pezzo, e mi dispiace. Ricordo di aver letto, da bambino, Dalla Terra alla Luna (1865) e di averlo apprezzato moltissimo. Ero affascinato dal viaggio spaziale e mi ero stupito per il modo in cui Verne avesse precorso i tempi, raccontando quell’avventura con un realismo incredibile, un secolo prima che l’Apollo 11 compisse l’impresa. Non l’ho più riletto, quel romanzo. Forse dovrei, per verificarne la presa emotiva. Per capire se, ancora, appaia tutto così verosimile anche per una mente “adulta” (si fa per dire, eh).

È terrificante, lo so, ma ora Verne mi annoia. Credo che il problema non sia suo (di sicuro). Credo che il problema risieda nella perdita dell’innocenza. Ho alzato il livello della sospensione dell’incredulità a un punto tale per cui ho perso la capacità di credere. Come tutti, del resto, da Babbo Natale in poi. Con Il giro del mondo in ottanta giorni mi ero esaltato, lo ammetto. Ma quanto di quell’entusiasmo era reale? Non lo so, forse era solo nostalgia, bisogno di crederci, appunto.

Venendo a Viaggio al centro della Terra, la storia la conosci. Dopo aver scoperto un documento antico, il professor Lidenbrock, suo nipote Alex e la guida Hans, si avventurano all’interno di un vulcano islandese che – secondo il sopracitato documento – nasconderebbe la via per il centro della Terra. Tra le altre cose, attraverseranno un mare interno, tanto grande da farli sbucare sull’isola di Stromboli.

Cosa mi è piaciuto.
La descrizione dei paesaggi, dei mostri marini, di tutto ciò che non è reale. Foreste di funghi grandi quanto alberi, enormi coccodrilli, addirittura un gigante. Tutto questo è fantastico, davvero. Fonte di ispirazione per la fantascienza che verrà.

Cosa non mi è piaciuto.
Lo schematismo dei personaggi, stereotipati nei generi di appartenenza, e il modo che hanno di relazionarsi tra loro. Lidenbrock è lo scienziato, crede fermamente nel suo scopo (raggiungere il centro della Terra) e non fa mai – MAI – una piega. Axel mette in dubbio lo zio, ha spesso paura e vorrebbe sempre tirarsi indietro. Hans è una sorta di deus ex machina, fa costantemente in modo che le cose vadano bene e risolve il problema della mancanza di realismo. Dove sono finiti i bagagli? Li ha recuperati Hans. Perché non sono morti tutti? Li ha salvati Hans. Chi procura il cibo? Sempre Hans. E via dicendo.

È chiaro, si parla di una scrittura di un secolo e mezzo fa, me ne rendo conto. Tuttavia la mancanza di profondità psicologica si fa sentire, ben più che nei romanzi del (quasi) contemporaneo H.G. Wells. È una lettura per ragazzi – e io ragazzo non sono più – ma non solo, è una lettura per ragazzi di un altro tempo, forse più ingenuo, più innocente.
Non so se tornerò su Verne, per ora non credo. Vedremo.

“Il giro del mondo in ottanta giorni” di Jules Verne

Di Jules Verne avevo letto solo Dalla Terra alla Luna, ma avevo circa dieci anni (si parla di secoli fa) non lo ricordo molto bene. Mi era piaciuto, questo sì, lo ricordo. Poi più nulla fino a Il giro del mondo in ottanta giorni, che ho preso tra le mani per portare avanti il proposito di leggere più classici e autori italiani (ok, arriverò anche lì, una cosa alla volta). Peraltro, tra i titoli arcinoti di Verne, questo è il meno “attraente” dal mio punto di vista: mi hanno sempre attirato di più Ventimila leghe sotto i mari e Viaggio al centro della Terra. Comunque, è andata così.

La trama mi pare quasi inutile raccontarla, considerato il numero spropositato di trasposizioni che sono state tratte da questo romanzo. Io ne ho in mente una di parecchi anni fa, con Pierce Brosnan…
Phileas Fogg, gentleman frequentatore del Reform Club londinese, scommette (ventimila sterline) di riuscire a circumnavigare il pianeta in 80 giorni. Parte, assistito dal suo servitore Passepartout. Viaggerà su vaporetti, navi, treni, elefanti e molti altri mezzi, inseguito dall’ispettore Fix, che lo crede (erroneamente) un ladro in fuga dopo un furto in banca. Lungo il tragitto incontrerà anche Auda, una giovane donna salvata da un sacrificio umano, che prenderà sotto la sua ala protettiva.

Come per H.G. Wells, altro grande padre della fantascienza classica, anche con Verne occorre calarsi per bene nel periodo in cui è stato scritto il romanzo, per capirne appieno le potenzialità e le ragioni del successo. Già perché, oggi, leggere una serie infinita di descrizioni di spostamenti e tecnologie meccaniche forse potrebbe annoiare ma nel 1873, senza tv e internet, rappresentava sicuramente qualcosa di straordinario.

L’avventura non manca, capiamoci, ho apprezzato in particolare la fuga a dorso d’elefante in India, l’assalto al treno da parte dei Sioux negli Stati Uniti e la corsa finale (con colpo di scena) per riuscire a vincere la scommessa. Certo, per forza di cose si perde buona parte dell’esotismo legato alla descrizione di parti del mondo che ormai si conoscono e che non sono più un mistero “irraggiungibile”, ma questo libro rimane un capolavoro di freschezza narrativa. La storia vola.

Quello di Verne era un mondo di grandi valori, di gesti eroici compiuti per senso dell’onore, un mondo caratterizzato da una confortante distinzione tra Bene e Male. Per un attimo mi è sembrato di avere ancora dieci anni. Questo è sufficiente per me, ci tornerò.

“Jurassic Park” di Michael Crichton

Sproloquio introduttivo.
Se escludiamo la mia nota passione per Stephen King, ho evitato per anni i grandi nomi della lettaratura internazionale contemporanea. Quei nomi, per capirci, che vendono milioni di copie e che trovi ovunque, fin dentro i piccoli supermercati dove tengono solo i “top” in classifica. È stato un grosso errore di cui mi sono reso conto ultimamente, non solo con il “qui presente” Michael Crichton ma anche con, ad esempio, James Ellroy, Dean Koontz, ecc. dei quali ti ho parlato da poco. Potrei stilarti una lista lunghissima di autori arcinoti che non ho mai letto: Wilbur Smith, Ken Follett, John Grisham… Un errore forse giustificato da una valutazione distorta, dovuta alle attuali classifiche di vendita che non si basano sul merito e sulle abilità letterarie, ma su altri fattori. Questi signori, però, vendevano ben prima che a scalare le classifiche ci fossero gli influencer di Instagram, gli youtuber e i calciatori, prima che, a far vendere, fosse un fatto di cronaca o qualche tragedia. Questi vendevano perché erano bravi, che è tutta un’altra cosa. Forse non saranno i Mozart o i Beethoven della letteratura, quelli li lasciamo fare a Hemingway o Steinbeck, ma di certo sono delle rockstar che hanno guadagnato il palco con sudore e abilità, come degli Springsteen o dei Jagger.
Ecco, l’ho detto.

Qui ci sarebbe il punto, recentemente introdotto al fine di farti stare più sereno con gli standard a cui sei abituato, dove ti racconto la trama del romanzo. Con Jurassic Park, concedimelo, lo saltiamo.

Questo romanzo si divora, anche senza essere un velociraptor… Tieni presente che, ovviamente, avevo già visto il film di Steven Spielberg e che quindi l’effetto sorpresa era molto limitato. Ciò dovrebbe darti un’idea di quanto Crichton sia bravo a farti tenere alta l’attenzione. Ogni minuto è buono per prendere in mano il libro e andare avanti, 500 pagine si bruciano come niente. Di sicuro leggerò il seguito, Il mondo perduto, ma è altrettanto sicuro che inserirò questo autore tra i miei “devo leggere tutto quel che ha scritto”. Ho già Sol levante nella pila dei libri.

Una curiosità.
Essendo Jurassic Park tra i libri di fantascienza più famosi degli ultimi tempi, sono andato a leggermi un po’ di recensioni per capire cosa ne pensassero i lettori, quali fossero le parti più apprezzate e quelle meno. Incredibilmente, le critiche (poche, ma ci sono) sono tutte dirette verso la figura del matematico Ian Malcolm (Jeff Goldblum, nel film), cioè il personaggio che a me è piaciuto di più. Malcolm rappresenta la parte più filosofica/riflessiva del romanzo, la critica più profonda alla superficialità umana. Il suo discorso sull’utilizzo della scienza come strumento di vendita è semplicemente fantastico e più che attuale. Malcolm sostiene (in breve) che la scienza assuma le conoscenze pregresse senza avere patito il sacrificio della ricerca, perdendo così il contatto con la realtà e occupandosi solo del prossimo “gradino”, incurante degli effetti a lungo termine di questo atteggiamento. Il potere ottenuto senza la disciplina, nata dal sacrificio, viene utilizzato in modo sconsiderato. La scienza si eredita, la disciplina no. L’ “avventata corsa alla commercializzazione” è la diretta conseguenza di tutto questo.
Hai forse qualcosa da obiettare?

“Verso il Polo con Armaduk” di Ambrogio Fogar

Ambrogio Fogar è per me una sorta di creatura mitologica, ammantata da un’aura di affascinante mistero. Il tempo che ci distanzia, la nostalgia degli anni di Jonathan Dimensione Avventura, lo rende qualcosa di magico, qualcosa che mi riporta all’infanzia. Non appena sento Adventure di Piovan vengo istantaneamente calato nel mondo di Bim Bum Bam, delle sorprese nelle scatolette per fiammiferi della Mulino Bianco e nella immensa tristezza di quel cazzo di gattino sotto la pioggia della pubblicità della Barilla. È un’esperienza solamente sensoriale, perché io Fogar non me lo ricordo. Cioè, lo ricordo bloccato nel letto, ma non ho memoria delle sue imprese, ero troppo piccolo, purtroppo.
Proprio scrivendo di queste cosa, ora, ho avuto un flash di Uanathan

Comunque, volevo leggere La zattera e mi son trovato tra le mani Verso il Polo con Armaduk. (Il mitico Armaduk, citato anche da pozzetto ne Il ragazzo di campagna, così, giusto per andare avanti con l’amarcord.) Qui Fogar racconta la sua esperienza di viaggio a piedi sulla banchisa verso il Polo Nord, in compagnia del fidato cane, con uno slittino per i bagagli e 60 gradi sotto zero. E lo racconta bene, in modo non pesante ma fortemente comunicativo. Quello che mi ha colpito è soprattutto il Fogar persona comune, non un supereroe. Mi spiego.
Quando leggo le imprese di Walter Bonatti (ho già parlato di Montagne di una vita) mi rendo conto di come fossero impossibili per chiunque non avesse la sua predisposizione fisica (scientificamente dimostrata, non solo allenamento). Dico “wow”, tuttavia non potrei mai calarmi nella sua parte, è una sorta di Superman. Con Fogar invece è stato diverso, le sue insicurezze sono più umane, e così anche i suoi fallimenti. Fogar non punta al primato (lo stesso viaggio al Polo è già stato compiuto da altri al momento della sua avventura), punta a fare un’esperienza, così come la potrebbe fare una persona qualsiasi. Per dirla in modo forse un po’ poetico è come se Bonatti fosse quello che vorremmo essere, Fogar quello che non abbiamo il coraggio di essere. Per farla breve: Fogar mi fa sentire in colpa di non vivere a pieno, così come faceva lui.

Andando su un piano più “terreno” il libro è ricco di particolari anche per quanto riguarda l’alimentazione, il vestiario e tutta la parte tecnica necessaria ad affrontare un simile viaggio. Oltre ovviamente alla descrizione di tutto il percorso di conoscenza e amicizia tra Ambrogio e Armaduk.
[Un inciso, per quanto riguarda i cani. All’inzio del libro Fogar descrive come vengono crudelmente trattati in quella zona del mondo dagli eschimesi (perlomeno in quegli anni). I cani sono solo uno strumento, li si ciba una volta alla settimana e se non servono vengono lasciati morire tra i ghiacci. L’esatto opposto di quanto succede oggi da noi, dove hanno più diritti dell’uomo. Le vie di mezzo sono ormai qualcosa di sconosciuto.]

Adesso cercherò di recuperare anche La zattera, storia del famoso naufragio di Fogar, per settanta giorni alla deriva nell’oceano, in cui perse la vita il suo amico Mauro Mancini.

Quindi, a tra poco.