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“L’isola del tesoro” di Robert Louis Stevenson

Ultimamente non ho molta voglia di leggere, sono parecchio demotivato. So che succede e non mi preoccupo – sono ancora lontano dal lobotomizzarmi bramando come obiettivo di vita la scempions di turno – tuttavia è un dato di fatto che sia passato dal leggere un libro in tre giorni a più di un mese. Ho scelto L’isola del tesoro (1883) proprio per cercare di uscire da questa impasse, fallendo. Sulla carta c’era tutto: letteratura per ragazzi, avventura, grande successo, eppure… eppure.

Di Stevenson avevo letto solo Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde e ricordo mi fosse piaciuto. Certo, lì era presente un tema forte, eterno, il Bene contro il Male nella natura umana. In più mi era piaciuto moltissimo L’isola dei pirati di Crichton, quindi tutto faceva presagire a un’ottima commistione tra un autore apprezzato e un genere interessante.
Avrai già capito che tutto questo preambolo nasce da una delusione, non la tirerò per le lunghe.

La trama è nota (vorrei ben vedere!) e rivista in varie opere successive, in tutte le salse. Un giovane ragazzo, Jim, entra in possesso di una mappa, poi c’è il viaggio sulla nave in cerca dell’isola e del tesoro, l’ammutinamento, i combattimenti, ecc.
Devo dire che l’inzio del romanzo, con l’arrivo dell’enigmatico marinaio nella locanda di Jim, mi aveva conquistato. Il senso di mistero e la tensione erano palpabili e “moderni”, in qualche modo. Tuttavia, dopo il breve intermezzo del viaggio in nave fino all’isola, il romanzo vira verso un continuo botta e risposta tra ammutinati e “buoni”, diventando poco coinvolgente, ai miei occhi. Le battaglie e gli scontri con il moschetto non suscitano in me nessun interesse, c’è solo la voglia di vedere come vadano a finire per poter procedere con la trama e arrivare al punto successivo.

Lo so, lo so, che sto parlando con leggerezza di un grande classico. Mi rendo conto, tuttavia, che questo sia un mio limite, una preferenza personale. Stevenson mi piace nello stile di scrittura, lo trovo più godibile rispetto a Verne (per rimanere tra i giganti dell’epoca), del quale però apprezzo maggiormente le trame, più coinvolgenti.

Non lo so, mi aspettavo più mistero, una tensione quasi soprannaturale, che non ho trovato. È tutto alla luce del sole, tutto esplicitato. Ho avvertito poco la solitudine del mare, la solitudine dell’isola. In poche parole, sono rimasto fermo, non ho viaggiato. Mi dispiace.

Ma la verità, temo, è che io sia ormai troppo vecchio per apprezzare qualcosa che farà sicuramente brillare gli occhi a un ragazzino alle prime letture.

In tema pirati/mare ho sullo scaffale La trilogia del mare di Golding. Attenderò un po’ prima di affronatarlo. Credo che ora leggerò Le leggi della frontiera di Javier Cercas.

“Il giro del mondo in ottanta giorni” di Jules Verne

Di Jules Verne avevo letto solo Dalla Terra alla Luna, ma avevo circa dieci anni (si parla di secoli fa) non lo ricordo molto bene. Mi era piaciuto, questo sì, lo ricordo. Poi più nulla fino a Il giro del mondo in ottanta giorni, che ho preso tra le mani per portare avanti il proposito di leggere più classici e autori italiani (ok, arriverò anche lì, una cosa alla volta). Peraltro, tra i titoli arcinoti di Verne, questo è il meno “attraente” dal mio punto di vista: mi hanno sempre attirato di più Ventimila leghe sotto i mari e Viaggio al centro della Terra. Comunque, è andata così.

La trama mi pare quasi inutile raccontarla, considerato il numero spropositato di trasposizioni che sono state tratte da questo romanzo. Io ne ho in mente una di parecchi anni fa, con Pierce Brosnan…
Phileas Fogg, gentleman frequentatore del Reform Club londinese, scommette (ventimila sterline) di riuscire a circumnavigare il pianeta in 80 giorni. Parte, assistito dal suo servitore Passepartout. Viaggerà su vaporetti, navi, treni, elefanti e molti altri mezzi, inseguito dall’ispettore Fix, che lo crede (erroneamente) un ladro in fuga dopo un furto in banca. Lungo il tragitto incontrerà anche Auda, una giovane donna salvata da un sacrificio umano, che prenderà sotto la sua ala protettiva.

Come per H.G. Wells, altro grande padre della fantascienza classica, anche con Verne occorre calarsi per bene nel periodo in cui è stato scritto il romanzo, per capirne appieno le potenzialità e le ragioni del successo. Già perché, oggi, leggere una serie infinita di descrizioni di spostamenti e tecnologie meccaniche forse potrebbe annoiare ma nel 1873, senza tv e internet, rappresentava sicuramente qualcosa di straordinario.

L’avventura non manca, capiamoci, ho apprezzato in particolare la fuga a dorso d’elefante in India, l’assalto al treno da parte dei Sioux negli Stati Uniti e la corsa finale (con colpo di scena) per riuscire a vincere la scommessa. Certo, per forza di cose si perde buona parte dell’esotismo legato alla descrizione di parti del mondo che ormai si conoscono e che non sono più un mistero “irraggiungibile”, ma questo libro rimane un capolavoro di freschezza narrativa. La storia vola.

Quello di Verne era un mondo di grandi valori, di gesti eroici compiuti per senso dell’onore, un mondo caratterizzato da una confortante distinzione tra Bene e Male. Per un attimo mi è sembrato di avere ancora dieci anni. Questo è sufficiente per me, ci tornerò.