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“Macerie prime – sei mesi dopo” di Zerocalcare

(Alla quarta graphic novel, come ti avevo promesso, ho inaugurato una pagina dedicata ai fumetti.)

Non ho molto da aggiungere su questa seconda parte di Macerie prime, rispetto a quanto già detto per la prima parte. Devo solo confermare che Zerocalcare mi ha stupito e mi ha fatto ricredere: è davvero bravo.

Mentre il primo volume analizzava i problemi personali dell’autore, cioè quelli legati all’improvviso successo, nel secondo si passa a un piano più vicino alle persone comuni, ossia i problemi che affligono tutti nell’arco della vita. Il lavoro, il precariato, la convivenza, la maternità, il suicidio, ecc. Devo dire che questo consente di apprezzare ancora di più la profondità con cui Michele Rech (vero nome di Zerocalcare) affronta gli argomenti. È tutto molto divertente e ironico ma allo stesso tempo, in un qualche modo, triste. Ed è tutto molto condivisibile.

C’è una certa amarezza, una continua riflessione sulle cose della vita che vanno accettate per quello che sono e di quanto sia importante cercare di fare le scelte giuste, che non sono esattamente quelle che ci spinge a fare il nostro contesto, spesso sbagliato. Aleggia il consiglio a lasciare da parte l’egoismo e l’individualismo in favore di una visione più ampia.

Credo proprio che leggerò altro di Zerocalcare. Accontentati, sono molto stanco.

“Politics” di Adam Thirlwell

«Mi divertiva l’idea di scrivere una sex comedy il cui tema in realtà non fosse il sesso ma… un argomento molto all’antica: la virtù.»
Adam Thirlwell

Questo è quanto afferma l’autore, classe 1978, in quarta di copertina di Politics (2003). Ma andiamo per ordine, ti racconto di cosa parla questo romanzo. La trama, insomma (da quando scrivo le trame le visite al blog si sono impennate, quindi mi adeguo al canone preconfezionato delle recensioni).

In Politics ci sono tre personaggi, i primi due, Moshe e Nana, sono una coppia, la terza, Anjali, è un’amica di entrambi. La coppia diventa un triangolo (non occulto, ma un ménage à trois accordato) e poi… e poi mi fermo perché ancora due parole e la trama sarebbe finita.

Quando ho preso in mano questo romanzo, e ho letto le prime pagine, sono stato subito colpito positivamente. Lo stile è molto fresco, semplice e diretto. Ci sono moltissime scene di sesso descritte in maniera quasi chirurgica, tecnica, tutt’altro che erotica. Sesso anale, fisting, rapporti saffici, posizioni a tre, bondage, ecc. Non manca nulla. Thirlwell parla poi in maniera diretta con il lettore, cioè, dice cose come “ora penserete che questo mio personaggio sia egoista”, sfondando il muro della finzione, che viene esplicitata come tale. I rapporti tra i tre, specie quelli sessuali, vengono descritti dal punto di vista psicologico di chi li vive. Ci sono scene tragicomiche in cui nessuno fa quello che vorrebbe davvero, perché pensa di fare ciò che renderà felice l’altro, rendendo tutti insoddisfatti. È un vero spaccato di quello che succede realmente in determinati rapporti in cui non si parla esplicitamente dei propri desideri. E tutto questo è molto positivo. Solo che…

…solo che, dopo le prime 50 pagine, la novità è finita, e non c’è stato molto altro di più. La trama è terribilmente scarna e il romanzo è lungo 260 pagine, peraltro anche molto fitte. Terminarlo si è rivelato difficile, sono stato pervaso da una noia mortale (eh già, nonostante il sesso). Ripeto, lo stile è sicuramente originale, e il sesso è funzionale a un nuovo metodo di studio dei personaggi costruito veramente bene. Non vorrei che pensassi fosse un romanzo per casalinghe frustrate come le 50 sfumature: non lo è, altrimenti lo conoscerebbero tutti. Non è un libro erotico per chi desidera leggere un libro erotico sentendosi comunque intellettuale (Cristo, andate su Pornhub e tagliate corto). È un romanzo sul sesso, sui rapporti a tre consensuali e sulla psicologia sessuale.

Ho scoperto Adam Thirlwell guardando la seconda serie di documentari di François Busnel: Les Carnets de route (in Italia: 1° serie America tra le righe; 2° serie Europa tra le righe, molto meglio la prima, guardala). Thirlwell è considerato uno scrittore emergente dall’innegabile talento.
Sarà… io però non so se leggerò mai un altro suo romanzo.

“Libertà” di Jonathan Franzen

Non avevo mai letto nulla di Franzen e mi sembrava doveroso rimediare. Questo autore è infatti ritenuto uno degli scrittori americani contemporanei più importanti ed è come se avesse staccato il biglietto per entrare in futuro (ora pare che la “giovane” età non glielo consenta ancora) nel vero e proprio Olimpo della Letteratura Americana.

Scriverti una trama di questo romanzo sarebbe alquanto inutile. Tratta il tema della famiglia nella sua totalità (unioni, divisioni, ricongiungimenti, odio, amore, crisi e tutto ciò che ti viene in mente) calato nel contesto americano, nel costante antagonismo tra spirito repubblicano e democratico, e nella lotta tra ciò che i protagonisti sono e quello che sentono di dover essere di fronte agli occhi del prossimo. Le ipocrisie della società contemporanea, per capirci.

Detta così sembra semplice e anche accattivante. Ma Libertà è lungo 622 pagine. Franzen analizza ogni personaggio fin nel minimo particolare. Per capire una sfumatura, un dettaglio, una scelta di qualcuno (anche secondaria), lo scrittore ti porta indietro di tre/quattro generazioni per quanto riguarda il soggetto in questione. Ed è così che dagli errori compiuti dai nonni e pagati dai genitori, si arriva alle scelte dei figli. Credo che, in assoluto, io possa dire di non aver mai “conosciuto” così bene dei personaggi letterari come quelli presenti in questo libro. Non ci sono punti psicologici oscuri. Ogni personalità è il frutto ben preciso di una passato esplicato nel dettaglio.

Prima di dirti cosa penso è bene essere chiari: Franzen scrive fottutamente bene. Su questo non c’è dubbio. La capacità di effettuare un approfondimento psicologico così elevato è più unica che rara. È un’esperienza da provare almeno una volta nella vita di un lettore, credo.

Il problema è un altro. Il problema è che siamo di fronte a uno dei più grandi esponenti dell’onanismo letterario. Un completo ed assoluto autocompiacimento delle proprie abilità, una totale consapevolezza della propria bravura esaltata dal narcisismo più estremo: «Leggimi! Come sono bravo! Ti sto facendo due palle colossali ma non potrai far altro che sostenere io sia uno scrittore eccezionale!»
In questo romanzo non succede un cazzo di niente. Ma non un cazzo di niente qualsiasi, no. Un cazzo di niente a cui hanno sparato a bruciapelo con un fucile a canne mozze e i cui resti sono stati bruciati con l’acido e poi inviati sulla superficie del Sole in una busta di carta intrisa di benzina.

Un insegnamento me la porto a casa, come si suol dire.
Avevo letto ovunque che Jonathan Coe fosse fenomenale: mi sono pippato La casa del sonno e avrei voluto dargli fuoco. Ora è successa la stessa identica cosa con Jonathan Franzen.
Bene, direi che devo stare lontano dai Jonathan.

“Le tredici vite e mezzo del capitano Orso Blu” di Walter Moers (serie Zamonia)

“Un orso di mare ha ventisette vite. Di tredici e mezzo delle mie vite riferirò in questo libro. Sulle altre, invece, tacerò. Anche un orso ha diritto a certi lati oscuri: lo rendono più interessante e misterioso”.

Così si aprono le memorie di Orso Blu, nato (forse) dalla schiuma di un onda in un guscio di noce e destinato a girovagare in lungo e in largo per il regno di Zamonia. Le tredici vite e mezzo non sono altro che 13 racconti (e mezzo) riguardanti le avventure di Orso Blu, dove ad ogni vita corrisponde una cambio di scenario e delle nuove peripezie. Orso Blu avrà a che fare con minipirati che gli insegneranno a navigare, onde ciacoline che lo istruiranno sulla dialettica, e poi ancora con croccamauri, sauri di salvataggio, spiriti coboldi, gaglioffi delle spelonche e, naturalmente, con il gran tenebrone Abdul Noctambulotti, genio dotato di sette cervelli, di cui peraltro il libro è cosparso di citazioni, essendo l’autore del “Dizionario enciclopedico dei portenti, degli organismi e dei fenomeni bisognosi di spiegazione di Zamonia e dintorni”.Come avrai capito siamo di fronte a una follia letteraria (in senso buono, si intende). Le tredici vite e mezzo del capitano Orso Blu è un romanzo per bambini, sì, ma per bambini intelligenti, e quindi anche per adulti bambini. È corredato dalle illustrazioni di Walter Moers, l’autore, più frequenti all’inizio del libro e più rare verso la fine, quasi come se stessi crescendo insieme al protagonista. Già, perché questo romanzo può anche essere visto come una metafora della vita, ma in modo leggero, senza ansie e pesi eccessivi. Il libro è solo il prima della serie di Zamonia, al momento composta da sei volumi.

Se dovessi fare un paragone ti direi che Moers è per il fantasy quello che Dougla Adams è stato per la fantascienza. Qualcosa di unico ed inimitabile. Di sicuro leggerò anche il resto della serie. I giochi di parole sono fenomenali, di sicuro il traduttore ha avuto un ruolo fondamentale nel gradimento dell’opera, per quanto mi riguarda. Sono 700 pagine che si leggono in un attimo, con la curiosità di scoprire cosa sia una nottola, un buiatore o un sauro di salvataggio.

“Aspro e dolce” di Mauro Corona

Questo Aspro e dolce è un romanzo semplice, di poche pretese, che si fa leggere volentieri senza creare grandi aspettative. Corona racconta la sua giovinezza a Erto, le grandi e continue bevute di vino, la naja, le donne, ancora il vino, le risse, le osterie, (il vino), le corse in auto, le pistolettate, sempre il vino…

Non ho mai avuto, durante la lettura, la classica curiosità di “vedere cosa succede nella pagina dopo”, non è così che funziona questo romanzo. È più un piacere semplice, un divertimento nella lettura di tutti i casini fatti da Corona in giovane età (e non solo). Certo, dopo un po’ ci si chiede se sia tutto vero, perché le avventure stravaganti sono davvero molte, forse troppe, ma in fondo chi se ne frega. Corona che mangia un canarino vivo in un’osteria (sì, in stile Ozzy con il pipistrello), Corona che sopravvive a decine di incidenti mortali in auto, Corona che sfonda porte di compaesani per rubare il vino, Corona che fa saltare candelotti di dinamite rompendo tutti i vetri del paese… e poi scene da selvaggio west con pistole e feriti d’arma da fuoco.

Insomma, se per un attimo prendessimo tutto per vero, la compagnia di amici dello scrittore parrebbe essere quella di un gruppo di criminali alcolizzati. Sì, come si “intuisce” sopra, il vino è una costante giornaliera, si parla proprio di ettolitri di alcool consumati. Mai sobri, in pratica. Chissà.

Tra una rissa e una sbornia traspare la vita delle piccole comunità di una volta, semplice e basata su vecchi “valori”, tra cui l’omertà tra compaesani, il costante bisogno di vendetta al più piccolo sgarro, ma anche il senso dell’amicizia vera.

È sicuramente un romanzo autocompiaciuto, seppure piacevole, ma non ai livelli dei primi che ho letto. Preferisco comunque il Corona di L’ombra del bastone e Il canto delle manère.

“La casa del sonno” di Jonathan Coe

Premessa.
In ogni libreria in cui entravo, prima o dopo, mi imbattevo in La banda dei brocchi di Coe. Avendo io una passione per tutto quello che riguarda la letteratura adolescenziale, o giù di lì (vedi lo stupendo Vite pericolose di bravi ragazzi), questo titolo, con il tempo, ha iniziato a incuriosirmi. Tuttavia ho scoperto che fa parte di una sorta di trilogia e ho quindi mollato in favore di La casa del sonno, ritenuto peraltro da molti il miglior romanzo di Coe.
Fine premessa.

La casa del sonno racconta la storia dello stesso gruppo di personaggi in due periodi temporali diversi. Quello che accomuna persone ed eventi è una clinica del sonno, dove i protagonisti si trovano prima come studenti e dopo qualche anno come pazienti/dottori. Il titolo del romanzo prende il nome da un libro che viene citato più volte da alcuni dei personaggi.

Ok, finita la parte positiva.

Non ci giro attorno. La casa del sonno è noioso, privo di qualsiasi interesse, campato per aria, inutile. È in assoluto uno dei romanzi più brutti che abbia mai letto. Ho dovuto stabilire una tabellina di marcia per leggere almeno 20 pagine al giorno e riuscire a levarmelo dai “piedi” il prima possibile. Hai presente il totale disinteresse? Ecco. Roba che se, mentre stai leggendo, suona l’orologio a cucù ti fermi a guardare il passero che fa capolino dodici volte perché è più coinvolgente. Non sono mai stato così poco propenso a girare pagina.
Non so cosa ci trovino molti in Coe, io non ci ho trovato nulla. Certo, ha un lessico un po’ più forbito della media (o forse è il traduttore), ma manca tutto il resto, la sostanza. Quando leggo romanzi “ben scritti” che non mi comunicano nulla mi viene sempre il sospetto che il successo sia dovuto a molti lettori medi che desiderino sentirsi “eruditi”.
Questo è un caso da manuale.

Ah, e non è la tematica, non sono chiuso o prevenuto su certi argomenti, tutt’altro. Non posso dire nulla per non spoilerare ma, rimanendo in tema, Invisible monsters di Palahniuk è uno stracazzo di romanzo cazzuto, questo no.

Mai più Jonathan Coe.

“Macerie prime” di Zerocalcare

Sì, lo so che non è un libro e che di solito qui scrivo di libri. So anche che questa pagina del blog si chiama “recensioni libri”. Vedila così: se mi capiteranno sottomano altri fumetti aprirò una pagina apposita. E poi questo Zerocalcare nelle sue opere scrive un sacco, cioè, è bello denso, quindi la lettura non è proprio quella classica veloce da fumetto.

Insomma, come spesso accade, ero al mercatino dell’usato e mi è capitato questo Macerie prime sotto il naso a 5 pleuri. Di Zerocalcare, alias Michele Rech, avevo letto ogni tanto solo le strisce online che girano sui social, facendomi effettivamente qualche risata. L’ho però sempre un po’ snobbato, perché piace a tutti e io sono un bastian contrario di default, e la cultura di massa la reggo generalmente poco. Tuttavia…

Tuttavia è stato divertente, mi ha piacevolmente stupito. In questo volume l’autore affronta i suoi problemi del dopo-notorietà, ossia quello che si potrebbe definire il lato oscuro del successo (e no, non è quello di sesso, alcool e droga: mica è Axl o Morrison..). Quindi il superlavoro, il non volersi allontanare dalle proprie radici, il rapporto con gli amici di sempre e quello con chi gli chiede costantemente comparse, prese di posizione, ecc. E devo dire che fa una bella impressione, perché affronta i problemi che avrebbe chiunque in modo ironico e trasparente, ma anche molto condivisibile se si ha una coscienza pulita, come pare essere la sua (che di coscienze, in forma coomics, ne ha qualche migliaio).

Ho poi scoperto che questo è il primo di due volumi (azz), adesso quindi mi toccherà recuperare anche il secondo, quando uscirà a maggio.
Insomma, nonostante il linguaggio in romanaccio, mi è piaciuto.

“Furore” di John Steinbeck

Durante la Grande Depressione americana degli anni ’30 una grande moltitudine di contadini e mezzadri perse il lavoro, e la terra, per l’impossibilità di essere competitivi sul nuovo mercato che si stava affermando: quello dei grandi profitti, delle bance, delle colossali aziende e dei trattori. Furore racconta la storia della famiglia Joad che, come molte altre, emigra dall’Oklahoma verso l’ovest, con il sogno di trovare il lavoro, idealisticamente raporesentato dalla California. Ed è così che la California, terra di profitti, si trovia invasa dagli Okies (termine dispregiativo per chi viene dall’est, non solo dall’Oklahoma) e li sfrutta a proprio vantaggio, riducendo le paghe al minimo in-sostenibile, creando campi-lager di lavoro e sfruttamento.

Furore può essere diviso in tre atti:
1° – Il fallimento.
I Joad perdono la loro terra e sono costretti alla fame. In questa prima parte Steinbeck presenta i molti personaggi. Il più noto è Tom Joad (sì, è proprio lo stesso della canzone del Boss, che ti posto a fine recensione), figlio di padre omonimo.
2° – Il viaggio.
I Joad attraversano l’America sulla Route 66 con un furgone scassatissimo (anche qui vi è una speculazione economica sui mezzi di trasporto per i bisognosi) guadagnando ogni chilometro con pochi dollari e tanto sudore. Un viaggio della speranza, come lo chiameremmo oggi, anche se a mio parere le situazioni sono molto diverse.
3° – Lo scontro con la realtà.
I Joad arrivano in California e devono fare i conti con quello che li attende, un futuro di miseria e povertà, lavoro precario e mal-non-pagato, violenza e sopprusi.

Furore è tutto qui. È un romanzo che necessita di rispetto, come puoi notare dalla mia inconsueta recensione classica, comprensiva di trama. Steinbeck ti porta direttamente in viaggio con i Joad, sei l’ennesimo passeggero del loro catorcio ambulante. All’inizio non è stato facile, lo stile è molto lento e descrittivo e se devo essere sincero dopo 50 pagine mi sono chiesto se sarei riuscito a leggerne altre 600.. poi però qualcosa cambia. Ti entra dentro. Quando sei a metà hai già capito perché è considerato uno dei grandi romanzi americani e non hai più dubbi che lo sia.

Ho letto molto riguardo a questo romanzo e alle sue similutidini con la storia recente contemporanea. Mi trovo d’accordo solo in parte. Furore è una critica aperta all’economia del profitto che, oggi come allora, governa il nostro mondo in molte forme diverse (non c’è ebbastanza tempo, qui, per analizzarle). Il mondo fa schifo, e questo è un dato di fatto inconfutabile.
I Joad, però, sono rappresentanti di una dignità perduta, un popolo che pur di non rubare morirebbe di fame. E che, se proprio fosse costretto a rubare, lo farebbe per un tozzo di pane, una patata, non per avere uno smartphone o una BMW. Solo il male necessario, nessuna violenza gratuita. E mi fermo qui.

Per questa edizione, dopo la brutta esperienza con I pascoli del cielo tradotto da Vittorini, ho scelto la nuova traduzione di Perroni. Incredibile ci siano voluti tanti anni per dare una traduzione decente a un capolavoro del genere.

Come promesso, ora, ecco Bruce Springsteen che ti spiega come stanno le cose, meglio di quanto sappia fare io:

(Nel momento in cui inserisco il video del Boss, prima di poter sentire la canzone, devo sorbirmi la pubblicità di un album di uno degli “artisti” di Amici di Maria De Filippi. Ti giuro che mi stanno sanguinando i testicoli.)

“I fantasmi di pietra” di Mauro Corona

I fantasmi di pietra di Mauro Corona non sono altro che i fantasmi degli abitanti di Erto che hanno abbandonato il paese dopo (o, tristemente, “durante”) la tragedia del Vajont del 9 ottobre 1963. Da questa data, infatti, esiste un prima e dopo Vajont a dare un ordine al tempo della comunità montana. Un prima e dopo quei 1910 morti, assassinati dall’acqua e dallo Stato (non per forza in questo ordine di responsabilità).

Corona divide la narrazione in quattro stagioni, così come quattro sono le vie del paese attraverso cui passeggia scrivendo questo libro che, più che un romanzo, è una guida turistica della memoria. Per ogni casa lo scrittore racconta una storia, un aneddoto, talvolta recente e talvolta risalente a secoli fa. Su tutto aleggia la tragedia, la differenza tra la vita prima di quel 9 ottobre e la non-vita dopo. Anche chi è sopravvissuto è comunque morto, insieme ai suoi cari scomparsi. Il paese si è spopolato, le case sono andate in pezzi, le strade si sono svuotate.

È una lettura interessante, intima. Non mancano storie divertenti, situazioni allegre, racconti piccanti e di risse e bevute, ma con la costante consapevolezza che nulla potrà essere come prima. Dopo tanti dati, ricostruzioni, documentari e inchieste, questo libro riesce a riportare la tragedia al suo livello umano, a far capire come è stata stravolta la vita dei singoli individui di una comunità.

Questo è il quinto libro che leggo di Corona (gli altri quattro li trovi tra le recensioni precedenti), ma è il primo suo che scopro scritto in questo modo. Brevi racconti, piccole storie.
Una fruizione sicuramente semplice, adatta anche a quando si hanno pochi minuti a disposizione, ma comunque intensa e coinvolgente.

Di questo scrittore sento spesso parlare male e non ho ancora capito il perché. O forse sono scemo io che salto da Stephen King a Steinbeck a Corona trovando delle qualità, sicuramente diverse ma comunque apprezabili, in tutti questi autori profondamente differenti.
Boh.

“Sleeping Beauties” di Stephen King e Owen King

Oggi sarò eccentrico, partirò con la trama. Sintetica, che di prolissità ho già avuto la mia dose…

L’epidemia Aurora sconvolge il pianeta: simultaneamente tutte le donne che si addormentano vengono avvolte da un bozzolo e non si svegliano più. Se svegliate controvoglia sono violente, aggressive, assassine. Mentre si cerca di capire cosa stia succedendo, e le donne ancora sveglie si imbottiscono di stimolanti (per non cadere tra e braccia di Morfeo), una sola creatura di sesso femminile pare essere immune a questo destino: Evie Black. Lei parla con volpi, tigri, alberi, topi, uomini, smartphone e chi più ne ha più ne metta. Ah, fluttua e legge il pensiero, oltre ad avere una forza sovrumana. In questo contesto si sviluppano, tra gli uomini, le fazioni di chi vuole proteggere i bozzoli e chi vuole bruciarli, di chi vede Evie Black come una strega e chi come una salvatrice. E qui mi fermo, prima di scoprire dove siano finite le donne.

A questo punto ci vorrebbe una qualche frase ad effetto che fa tanto presa sui consumatori. Tipo: “Quando The Dome incontra Greenpeace nella giornata contro la violenza sulle donne”. Adesso te la spiego.
Ma cazzo, che pacco.

Effetto The Dome.
E’ la classica strategia di Stephen King: prendi un tot di persone e le inserisci in una situazione “isolante”, che sia un locale, un paese o un’epidemia. Tipo la cupola di The Dome, appunto, il supermarket di The Mist, il virus de L’ombra dello scorpione. Potrei andare avanti. Questa “situazione” diventa l’artificio letterario per creare due fazioni, il Bene e il Male, che si scontrano tra loro. Non è diverso per Sleeping Beauties. Come direbbe il buon Vincent Vega: «È lo stesso fottuto campo da gioco».

Effetto Greenpeace. [leggero spoiler]
Attenzione: coup de théâtre. In questo campo da gioco compare l’arbitro: Evie Black. Una sorta di emissaria della Natura, una figura che dovrebbe fare capire all’umanità intera cosa siamo e cosa potremmo essere. Il tutto condito da una certa dose di modaiolo sessismo (e non inteso come maschilismo, ma come femminismo).

Effetto Women’s Power.
Abbiamo il contrasto tra uomini buoni e uomini cattivi e quello tra umanità e natura, vuoi non buttarci dentro anche quello tra natura maschile e natura femminile? Di sicuro, a livello di marketing, è il momento migliore per farlo. Gli uomini hanno distrutto il mondo, le donne avrebbero fatto di meglio.
[Questa cultura ha rotto il cazzo, è la prima causa di disuguaglianza sociale. Ogni volta che sento la parola “femminicidio” penso a come, invece di portare uguaglianza, stiamo allargando il concetto che le donne vadano protette come se fossero esseri “speciali”. Dove, però, lo “speciale” sembra indicare implicitamente ancora un’inferiorità.]

Non ci siamo King (padre, figlio e Spirito Santo), nonostante io sia “il tuo ammiratore numero uno”, questo libro è stato uno dei peggiori tuoi libri che abbia letto (cioè tutti). Partiamo col dire che 650 pagine sono troppissime, per quello che succede, 400 sarebbero state sufficienti e abbondanti. Mi sento come quando si finisce una serie televisiva: sono stato intrattenuto a luuungo ma mi ritrovo con un pugno di mosche (o di falene) in mano, esito ben diverso da quando vedo un bel film. Situazioni inutilmente complesse, degne della migliore (per molti, ma non per me) serie diluita in 15.000 episodi, poco attinenti alla storia, molto attinenti al consumo, al consumismo e al vendere libri ai polli.

La prossima volta scriviamo un bel romanzo sui gattini?