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“La valle dell’Eden” di John Steinbeck

È terribilmente difficile parlarti de La valle dell’Eden, è un’opera talmente enorme che fatico a decidere da che parte iniziare. È ciò che si potrebbe definire “il grande romanzo americano”. È un libro con una fisicità proporzionata al suo contenuto, un volume forte (sono quasi 800 pagine) da innalzare al cielo, gridando: «C’è un mondo qui dentro!»
Ho reso l’idea?

John Steinbeck scrive La valle dell’Eden (East of Eden) nel 1952, dedicandolo ai suoi due figli. Lui stesso sostiene di avere scritto tutti i suoi romanzi precedenti solo come preparazione per questo. Nel 1955 Elia Kazan lo traspone nel film omonimo con James Dean (non l’ho ancora visto, provvederò).

Non ti racconterò la trama del romanzo – se lo desideri su Wikipedia c’è ed è abbastanza approfondita – ti dirò però, a grandi linee, di cosa parla. In un periodo compreso tra la Guerra Civile Americana e la Prima Guerra Mondiale, Steinbeck (proprio lui, discendente di uno dei personaggi secondari) narra le vicende di due famiglie, i Trask e gli Hamilton e, più in generale, di come l’Uomo, nel corso della propria esistenza, sia costretto a confrontarsi con il Male. Un Male che l’autore incarna nel personaggio di Cathy Ames, una donna priva di qualsiasi lato positivo, non a caso ritenuta una sorta di fusione tra Eva, il serpente e Satana.

Inutile dirti come La valle dell’Eden sia carico di simbolismo religioso. Per ben due volte due coppie di fratelli – prima Adam e Charles, poi Aron e Caleb – ripropongono le vicende di Caino e Abele (le iniziali dei nomi sono le stesse), con tanto di “regali” al padre e tendenze caratteriali opposte. Tuttavia il tema principale rimane quello della lotta tra il Bene e il Male, e della possibilità di scelta tra i due, rendendo così universale il messaggio di Steinbeck. Termine ricorrente (e fondamentale) del romanzo è timshel, parola ebraica che significa “tu puoi”. Una vera e propria contrapposizione alla predestinazione.

La valle dell’Eden è indubbiamente tra “i dieci migliori romanzi che abbia mai letto” (come se poi fosse possibile fare una classifica, ma la frase rende l’idea). Non comprendo, in ogni caso, il costante confronto che molti fanno tra questo libro e Furore (sì, sempre tra “i dieci”), con il solo fine di stabilire quale sia il migliore. Furore è un romanzo terreno, che parla di problemi terreni; La valle dell’Eden sfiora la metafisica. Trattano forse lo stesso argomento (il Male e il Bene), ma su due livelli totalmente diversi. Forse Furore è più “facile”, nel senso che è stato più semplice scriverne qui sul blog. La valle dell’Eden, invece, deve essere letto per essere compreso. Parlarne è quasi impossibile.

Anche per questo, la finisco qui. Tuttavia ho la sensazione che stia ancora succedendo qualcosa là dentro, tra le pagine. E credo sia grandioso. Credo sia questa la differenza che corre tra una storia buona e una storia eterna. Di certo l’ottima traduzione (ho letto l’edizione tradotta da Maria Baiocchi e Anna Tagliavini) ha aiutato a rendere ancora più contemporaneo, anche nel linguaggio, qualcosa che comunque non invecchierà mai.

Libri di John Steinbeck di cui ti ho parlato:
I pascoli del cielo (1932)
Pian della Tortilla (1935)
La battaglia (1936)
Uomini e topi (1937)
Furore (1939)
La perla (1947)
La valle dell’Eden (1952)

“La selva oscura” di Upton Sinclair

Nel 1904 il giornalista Upton Sinclair pubblica una serie di articoli su un settimanale socialista, una vera e propria inchiesta sui macelli di Chicago, dove viene “prodotta” quasi tutta la carne destinata a sfamare il popolo americano. Nel 1906, forse fiutando l’affare, Sinclair trasforma gli articoli nel romanzo La selva oscura (The Jungle), che diventa un best seller internazionale e viene tradotto in 27 lingue. Il romanzo avrà una potenza tale da causare l’approvazione del Federal and Drugs Act (una legge per il controllo della carne) da parte del Congresso degli Stati Uniti, sotto la spinta del presidente Roosvelt.

Sinclair racconta la vita di Jurgis Rudkus che, insieme alla  famiglia, giunge negli USA dalla Lituania, in cerca di fortuna. I sogni di felicità e richezza di Jurgis crollano presto, quando si ritrova a Chicago a mendicare un lavoro sottopagato nella zona a più altra intensità di macelli d’America. Lì Jurgis impara cosa sia l’umiliazione, scopre lo sfruttamento dei lavoratori e la sua vita diviene un vero e proprio incubo, al pari di quella di tutti gli altri uomini e donne macellati (appunto) dal meccanismo del profitto a ogni costo.

Parlarti, in poche righe, di ciò che descrive Sinclair in più di 500 pagine è praticamente impossibile. La selva oscura devve essere letto, per essere compreso. Sinclair non ha la delicatezza di Steinbeck, che in Furore lasciava la maggior parte dello schifo all’immaginazione, lui vuole mostrarti le cose così come stanno, senza addolcire la pillola. Bambini che affogano in fiumi di fango, mogli che si prostituiscono per salvare il posto di lavoro dei mariti, corruzione, licenziamenti causa infortunio (senza alcuna tutela), persone che rovistano nelle discariche, malattie, carne putrefatta immessa sul mercato. Questo è The Jungle.

Forse te lo devo ripetere, La selva oscura è un romanzo di 115 anni fa. Mi fa sempre molta impressione leggere libri così vecchi, che nulla hanno da invidiare a testi contemporanei, sia per quanto riguarda il linguaggio che per i temi trattati; l’incredibile capacità degli scrittori statunitensi (vedi John Fante) di rimanere attuali e fruibili, a differenza, purtroppo, di molti autori italiani. Sinclair non è da meno e riesce benissimo – anche a distanza di un secolo – a sconvolgerti e, infine, a farti arrabbiare.

Già, perché non è cambiato nulla. In tutti questi anni non abbiamo imparato a ragionare come specie, abbiamo solo vestito i problemi con altri tessuti, ma l’essere umano è rimasto un animale individualista, involuto, e per questo destinato all’estinzione. Detto in altri termini: scopiamo la polvere sotto un altro tappeto, aspettando sempre che sia qualcun altro a scoprire come non crearla, quella polvere, evitando così il peso della responsabilità. Oggi i lavoratori non sono più sfruttati a Chicago, ma in zone del mondo che non vediamo (o che non vogliamo vedere). E noi compriamo, compriamo, compriamo… oggetti che non ci servono, prodotti dove una donna, se incinta, viene licenziata o dove un bambino viene messo in catena di montaggio. Prodotti dove i diritti umani vengono calpestati, ora come allora, in favore di un prezzo finale più economico. È la nostra società del superfluo, che paga in saldo con il sangue degli altri, sacrificando l’unico vero bene dal valore incommensurabile: il tempo.

Qualche sera fa ho guardato Cowspiracy su Netflix, un documentario, prodotto da Leonardo di Caprio, sull’allevamento intensivo. Te lo consiglio vivamente. Ti renderai conto che, anche da questo punto di vista, siamo rimasti fermi. Le associazioni che si occupano dell’ambiente sono le prime a non parlare degli effetti devastanti dell’industria del bestiame, puntando tutto sul tema economicamente più “facile” del risparmio energetico. I primi finanziatori di queste associazioni sono i produttori di carne… è ancora il denaro a comandare, non la salute. Forse (forse) non mangiamo più carne marcia, come ai tempi di Sinclair, ma qual è la differenza se la carne che mangiamo avvelena l’aria che respiriamo? O se, questa carne, è imbottita di farmaci? Cosa cambia, dal momento che l’Organizzazione Mondiale di Sanità ha classificato le carni lavorate come cancerogene al pari del fumo di sigaretta? Nulla.

Te lo dico, a scanso di equivoci: non sono vegetariano, vegano o rettiliano. Quando vedo un hamburger comincio a sbavare come il cane di Pavlov. Tuttavia credo sia arrivato il momento di porsi delle domande, curare le cause del malessere, non più i sintomi. Questo sia dal punto di vista economico che da quello alimentare. Continuiamo ad approcciare i problemi in modo politico, neanche fossimo allo stadio a tifare per la squadra del cuore. Parlare di padroni e di oppressi, come se fossero categorie distinte e contrapposte, di partiti e di politicanti, è qualcosa che si poteva fare ai tempi di Sinclair. Oggi è semplicemente primitivo ragionare a compartimenti stagni. Dobbiamo evolverci, ora, passare a un nuovo livello di organizzazione, ripeto, come specie.

Quando leggo libri come La selva oscura, vorrei che un domani l’Uomo potesse prenderli in mano e utilizzarli quali esempi del prima, ma non credo che succederà. Siamo in grado di immaginare in grande, a volte, ma la nostra natura è limitata. Penso sempre agli alieni di Incontri ravvicinati del terzo tipo, che atterrano e cercano un mezzo di comunicazione, nella loro immensa superiorità da viaggiatori interstellari. Noi non potremo mai essere come loro. Noi saremmo lì a venderci le tutine spaziali con lo sponsor, a decidere se il viaggio sia vantaggioso a livello economico e a fare a gara per “chi arriva prima”.  Siamo ancora fermi, vorrei dire “al 1906”, ma la verità è che non ci siamo mai mossi.

 

Copia omaggio ricevuta da Gingko Edizioni.

“La battaglia” di John Steinbeck

Ho impiegato due settimane a leggere La battaglia di John Steinbeck, un tempo estremamente lungo per un libro di 300 pagine. Ora che l’ho terminato sono in preda a sentimenti contrastanti e non so ancora bene cosa vorrei dirti a riguardo. Se da un lato la scrittura poetica di Steinbeck è sempre qualcosa di unico, dall’altro la storia del romanzo non è tra quelle che più mi hanno entusiasmato. In dubious battle, insomma, non è coinvolgente come altri libri dello scrittore, ma questo non significa non sia una grande fonte di riflessione.

Il tema è quello estremamente caro a Steinbeck: la situazione dei braccianti, e il loro sfruttamento, nel periodo della Grande Depressione. Furore raccontava l’odissea della famiglia Joad, soprattutto dal punto di vista umano; Uomini e topi affrontava il dramma di chi, già ultimo per condizione economica, lo era ancor di più per natura fisica. La battaglia si sposta all’interno dei movimenti degli scioperanti (e dei “rossi”, i comunisti) che cercavano di cambiare qualcosa attraverso, appunto, le battaglie sul campo.

Come già visto anche negli altri romanzi, quello che accadeva era che i braccianti venivano attratti sul posto di lavoro con la promessa di paghe che poi venivano, solo all’ultimo momento, dimezzate. La manodopera a questo punto non poteva più tirarsi indietro (non aveva nessuna stabilità per poter rifiutare l’ingaggio) e accettava l’umiliazione di lavorare per poco e niente. Ed è esattamente questo che accade ne La battaglia: un esercito di disperati viene attratto nei campi, per la raccolta delle mele, con una promessa che non viene mantenuta. Tra questi ci sono anche Mac, un “rosso” di vecchia data, e Jim, appena arruolato nel partito. Loro, però, in quanto “comunisti”, si recano nei campi già sapendo che ci sarà motivo di lottare per i diritti dei lavoratori. È questo il loro vero scopo. La battaglia non è altro che il racconto dello sciopero, organizzato e fomentato dai due protagonisti.

Il tema, attuale ed eterno, è sempre la stesso: l’uomo che odia sé stesso. Dietro a una “battaglia” appunto, utile a nascondere le ingiustizie, c’è chi non ha assolutamente nulla e chi ha tutto, troppo. Nella lotta ai “rossi” di allora si può ritrovare qualsiasi altra scusa che serva a mantenere lo stato invariato delle cose, anche oggi. Non è infatti molto diverso da quello che vedi in tv e nei telegiornali tutti i giorni: mentre si accende la tifoseria da stadio tra i partiti (e tra le capre che li seguono ancora), nulla cambia, l’uomo non si evolve. Le vittime culturali di questo sistema sono da entrambi i lati, ma ovviamente a soffrire di più è chi sta peggio perché, oltre alla stupidità, patisce anche la fame.

Adesso voglio leggere La valle dell’Eden, quindi lo metto in lista.

Libri di John Steinbeck di cui ti ho parlato:
I pascoli del cielo (1932)
Pian della Tortilla (1935)
La battaglia (1936)
Uomini e topi (1937)
Furore (1939)
La perla (1947)

“La perla” di John Steinbeck

Un giorno dovrò decidermi a scrivere uno di quei post che vanno tanto di moda adesso, quelli con le classifiche che attirano di brutto, tipo: “i dieci romanzi che ritengo imperdibili”. Ecco, tra questi dieci sicuramente ci sarebbe Furore di John Steinbeck, per me uno dei migliori romanzi mai scritti. E tu sai che io non sono uno che punta solo ai “grandi classici”, cioè, per capirci, probabilmente ci infilerei dentro anche IT di Stephen King e Il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach.
Perché ti dico questo?
Perché una volta individuati i miei (o i tuoi) dieci romanzi, chiunque li abbia scritti, avrà comunque diritto a possibilità/occasioni illimitate. Si accetteranno anche le produzioni meno entusiasmanti pur di ritrovare un riflesso di quello che ci aveva attratto nell’opera che abbiamo posizionato lì, tra i nostri masterpieces.
E, di nuovo, perché ti dico questo?
Perché, purtroppo, La perla, a differenza degli altri libri che ho letto di Steinbeck, non mi ha entusiasmato, anzi, mi ha lasciato praticamente indifferente.

Kino è un pescatore indio molto pover(issim)o che vive, con la compagna Juana e il figlio neonato Coyotito, in una capanna in un villaggio di nullatenenti. La sola cosa che questi disperati possono condividere sono le giornate e le notizie che riguardano il villaggio, perché altro non hanno. Un giorno Kino trova sul fondo del mare una perla enorme, “La perla del mondo”. La notizia gira: Kino presto diventerà ricco. Si creano i primi malumori, le invidie. Un dottore della città vicina cerca di truffare Kino, dei ladri lo aggrediscono durante la notte, la vita, prima molto semplice, diventa molto difficile. Kino è costretto a fuggire, ma il Male, incarnato dalla perla, lo segue. Mi fermo.

Potenzialmente la storia è stupenda e semplice come è caratteristico di Steinbeck, ma questa volta la magia non è scattata. Kino non mi ha preso, non ho vissuto le sue turbe. In poche parole Kino non è Tom Joad. È un romanzo breve, circa un centinaio di pagine, ma di tutto mi è rimasto l’involucro, la storia, purtroppo nessuna emozione.
Non basterà comunque questo a fermarmi, con il tempo leggero tutto ciò che Steinbeck ha scritto.

Libri di John Steinbeck di cui ti ho parlato:
I pascoli del cielo (1932)
Pian della Tortilla (1935)
Uomini e topi (1937)
Furore (1939)
La perla (1947)

“Uomini e topi” di John Steinbeck

Uomini e topi (1937) potrebbe tranquillamente essere quello che, in tempi moderni, definiremmo una “costola” di Furore. I temi, gli ambienti e le situazioni sono le stesse del capolavoro di John Steinbeck, ma trattati attraverso una vicenda più piccola e meno complessa, quasi un racconto lungo, più che un romanzo.

George e Lennie sono due braccianti vagabondi, alla costante ricerca di un lavoro e con un sogno piantato in testa: avere abbastanza denaro per possedere un appezzamento proprio dove vivere del “grasso della terra”. C’è un problema però: Lennie è ritardato, oltre che enorme e molto forte. Ogni volta che si fermano da qualche parte Lennie ne combina qualcuna delle sue e, per evitare problemi, i due devono poi scomparire. Per quanto George cerchi di educare Lennie, questi dimentica in fretta tutti gli insegnamenti e il circolo si ripete. Quando, nell’ennesimo ranch, ci si mette di mezzo la moglie/gatta morta del borioso proprietario le cose si complicano tragicamente…

Steinbeck è sempre Steinbeck, ed è in assoluto lo scrittore che preferisco tra i classici della letteratura americana. Anche in Uomini e topi si ritrova la condizione di semi schiavismo dei braccianti, costretti ad accettare qualsiasi soppruso a seguito della grande depressione americana. Le condizioni di (non)sopravvivenza e il cosciente crollo di qualsiasi sogno e speranza di rivalsa di una generazione, che sfoga nel gioco e nell’alcool la sua frustrazione. La netta linea di separazione che divide chi ha, e comanda, e chi non ha, e ubbidisce.

La delicatezza con cui lo scrittore gestisce il rapporto tra i due protagonisti è qualcosa di unico. Non si può non provare pena per il povero Lennie e comprendere allo stesso tempo anche i momenti di insofferenza di George, caricato di una gravosa responsabilità nei confronti dell’amico, destinato a commettere errori irreparabili a causa della propria ingenuità.
In un mondo senza pietà, dove ci si fa le scarpe per poco, non c’è spazio né tolleranza nei confronti di chi è diverso. Lennie è destinato a diventare la vittima sacrificale della guerra tra i poveri, dove chi è ultimo non viene difeso anche quando si potrebbe, per il timore di inimacarsi il padrone. Una guerra che si combatte tra ritardati, appunto, vecchi, storpi, monchi, neri… dove anche i cani al termine della loro vita sono un peso, un peso che viene alleggerito con un colpo di fucile.

Ho letto un’edizione della Bompiani tradotta da Cesare Pavese. Ora corro a cercare il film omonimo del 1992, con (e di) Gary Sinise, insiema a John Malkovich, che non ho mai avuto modo di vedere.

Letti di John Steinbeck:
I pascoli del cielo (1932)
Pian della Tortilla (1935)
Uomini e topi (1937)
Furore (1939)
La luna è tramontata (1942)

“Pian della Tortilla” di John Steinbeck

Pian della Tortilla è un romanzo del 1935 di John Steinbeck. Racconta la vita di un gruppo di amici, di origine latina, a Monterrey in California. Il termine che più spesso si sente, legato a questo romanzo, è picaresco. Già, perché questi uomini vivono la vita giorno per giorno, compiendo piccoli furti e scorrerie, con l’unico fine di recuperare qualche litro di vino. L’incipit del racconto è lo sconvolgimento dello status quo, dovuto all’improvvisa eredità di due case ricevuta da Danny, uno degli amici, che lo fa elevare dalla posizione di nullatenente a quella di proprietario. La condivisione della proprietà con i suoi compagni diventa l’unico metodo per evitare la perdita della libertà, strettamente legata all’assenza di possedimenti e quindi di responsabilità.

Ti avevo già parlato recentemente de I pascoli del cielo e, soprattutto, dell’immenso Furore. In effetti ho scoperto Steinbeck da poco, non so perché prima l’avessi trascurato. Devo però confessarti che questo Pian della Tortilla mi ha un po’ annoiato, l’ho trovato  lungo (in realtà sono solo 150 pagine) e poco coinvolgente, sebbene abbia un finale davvero molto bello e dei messaggi profondi e importanti. Forse è troppo allegro per i miei gusti, è un romanzo di cui ci si gusta le situazioni, più che la storia. Tuttavia questa continua ricerca del vino, che avevo già incontrato in Fiesta di Hemingway, fatica a conivolgermi, e non certo perché il vino non mi piaccia. Magari devo solo dormirci (o berci) sopra, non lo so.

La povertà, la guerra, l’incapacità di vivere, appaiono in questo romanzo meno drammatiche rispetto agli altri di Steinbeck che ho letto. Ecco, la parola corretta è leggerezza. Tutto è trattato con leggerezza, anche le tragedie. Che poi forse è un pregio, ma non è nel mio gusto. Anche ne I pascoli del cielo c’erano molte situazioni divertenti, ma il livello di drammaticità era più intenso.
(La versione che ho letto è stata tradotta ancora da Vittorini, spero che questo non abbia penalizzato troppo l’opera.)

Chiariamoci però, siamo comunque nel Pantheon degli Dei della scrittura, dove il confronto può essere, come scrivevo sopra, solo in rapporto a pochi autori intoccabili, se non sulle stesse opere dello scrittore.
In poche parole, non smetterò di certo di leggere Steinbeck.

“Furore” di John Steinbeck

Durante la Grande Depressione americana degli anni ’30 una grande moltitudine di contadini e mezzadri perse il lavoro, e la terra, per l’impossibilità di essere competitivi sul nuovo mercato che si stava affermando: quello dei grandi profitti, delle bance, delle colossali aziende e dei trattori. Furore racconta la storia della famiglia Joad che, come molte altre, emigra dall’Oklahoma verso l’ovest, con il sogno di trovare il lavoro, idealisticamente raporesentato dalla California. Ed è così che la California, terra di profitti, si trovia invasa dagli Okies (termine dispregiativo per chi viene dall’est, non solo dall’Oklahoma) e li sfrutta a proprio vantaggio, riducendo le paghe al minimo in-sostenibile, creando campi-lager di lavoro e sfruttamento.

Furore può essere diviso in tre atti:
1° – Il fallimento.
I Joad perdono la loro terra e sono costretti alla fame. In questa prima parte Steinbeck presenta i molti personaggi. Il più noto è Tom Joad (sì, è proprio lo stesso della canzone del Boss, che ti posto a fine recensione), figlio di padre omonimo.
2° – Il viaggio.
I Joad attraversano l’America sulla Route 66 con un furgone scassatissimo (anche qui vi è una speculazione economica sui mezzi di trasporto per i bisognosi) guadagnando ogni chilometro con pochi dollari e tanto sudore. Un viaggio della speranza, come lo chiameremmo oggi, anche se a mio parere le situazioni sono molto diverse.
3° – Lo scontro con la realtà.
I Joad arrivano in California e devono fare i conti con quello che li attende, un futuro di miseria e povertà, lavoro precario e mal-non-pagato, violenza e sopprusi.

Furore è tutto qui. È un romanzo che necessita di rispetto, come puoi notare dalla mia inconsueta recensione classica, comprensiva di trama. Steinbeck ti porta direttamente in viaggio con i Joad, sei l’ennesimo passeggero del loro catorcio ambulante. All’inizio non è stato facile, lo stile è molto lento e descrittivo e se devo essere sincero dopo 50 pagine mi sono chiesto se sarei riuscito a leggerne altre 600.. poi però qualcosa cambia. Ti entra dentro. Quando sei a metà hai già capito perché è considerato uno dei grandi romanzi americani e non hai più dubbi che lo sia.

Ho letto molto riguardo a questo romanzo e alle sue similutidini con la storia recente contemporanea. Mi trovo d’accordo solo in parte. Furore è una critica aperta all’economia del profitto che, oggi come allora, governa il nostro mondo in molte forme diverse (non c’è ebbastanza tempo, qui, per analizzarle). Il mondo fa schifo, e questo è un dato di fatto inconfutabile.
I Joad, però, sono rappresentanti di una dignità perduta, un popolo che pur di non rubare morirebbe di fame. E che, se proprio fosse costretto a rubare, lo farebbe per un tozzo di pane, una patata, non per avere uno smartphone o una BMW. Solo il male necessario, nessuna violenza gratuita. E mi fermo qui.

Per questa edizione, dopo la brutta esperienza con I pascoli del cielo tradotto da Vittorini, ho scelto la nuova traduzione di Perroni. Incredibile ci siano voluti tanti anni per dare una traduzione decente a un capolavoro del genere.

Come promesso, ora, ecco Bruce Springsteen che ti spiega come stanno le cose, meglio di quanto sappia fare io:

(Nel momento in cui inserisco il video del Boss, prima di poter sentire la canzone, devo sorbirmi la pubblicità di un album di uno degli “artisti” di Amici di Maria De Filippi. Ti giuro che mi stanno sanguinando i testicoli.)