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“L’apprendista di Goya” di Sara Di Furia

Arrivo decisamente in ritardo su L’apprendista di Goya (2019), avevo in programma di leggerlo da parecchio tempo ma – tra una pandemia e l’altra – ho rimandato a lungo. Un po’ perché desideravo procurarmi il libro a una delle presentazioni dell’autrice (che nel frattempo ho avuto il piacere di conoscere) e di presentazioni, nel 2020, non è che se ne potessero fare tante, un po’ perché l’arte pittorica è da sempre, per me, un argomento abbastanza ostico (un modo ben costruito per dire che sono una capra).
Alla fine, comunque, ho approfittato del Salone del Libro di Torino (dietro l’angolo… perché cercare a Brescia il libro di una scrittrice bresciana?) e sono riuscito ad averlo con tanto di dedica. Peraltro della Di Furia ti avevo già parlato de La regina rossa, romanzo storico-gotico di atmosfera Edgarallanpoiana (no, non il rapace, il maestro dell’horror).

L’apprendista di Goya si colloca ancora nel genere romanzo storico – meglio, thriller-storico – ma questa volta la trama non ha nulla a che vedere con il soprannaturale. A fare gli “onori di casa” sono omicidi, sangue, arte, sangue, intrighi e… sangue. Non troppo eh, non è un romanzo splatter, chiariamoci, ma quanto basta per tenere alta la tensione e il livello percepito di pericolo.

1791, Madrid. Il giovane Manuèl Alvèra si trasferisce dal colorificio di famiglia allo studio del pittore Francisco Goya, con l’incarico di occuparsi della produzione dei colori per il noto artista. In cambio, Goya si impegna a prepararlo per l’esame di ammissione alla Real Accademia di San Fernando. Mentre tra i due si instaura un complesso rapporto maestro-discepolo (reso difficile dal carattere instabile di Goya), a Madrid scorrazza libero e felice un misterioso serial killer, el diablo, che prende di mira solo gli artisti – diciamo – “birboni” (cioè quelli che dipingono le cose sconce, fregandosene dell’Inquisizione). Manuèl comincia a sospettare di tutti, a partire dal proprio maestro. Mi fermo.

Tutta la storia è narrata in prima persona da Manuèl e questo ti butta direttamente dentro lo studio di Goya. Sei lì anche tu, a creare i colori insieme al protagonista, a cercare di capire chi sia l’assassino, a tremare per quello che penserà il maestro di te. Se ciò non fosse sufficiente a coinvolgerti, c’è persino un po’ di erotismo qua e là, che non guasta mai (lo diceva pure Bukowski, ma non so se vale, come fonte).
Per scrivere questo romanzo deve essersi reso necessario un grande lavoro di ricerca, in diversi campi. Oltre a quello più evidente, cioè quello storico, vi è poi tutta l’attenzione dedicata alla composizione dei colori, alla descrizione dei pigmenti, e tutto ciò che riguarda la pratica della pittura.

Nonostante la mia scarsa conoscenza artistica (casomai non si fosse capito), questo romanzo mi ha coinvolto molto, tanto che ho terminato in soli due giorni le sue 300 pagine. Ti dirò di più: ho addirittura cercato Goya su Wikipedia, per fare un breve ripasso della sua vita e delle opere. Ora, questo per te potrebbe non significare niente, ma ti assicuro che è un evento veramente straordinario.
Te l’avevo già promesso dopo aver letto La regina rossa (poi è andata diversamente), ma te lo ripeto: recupererò anche Jack.

“Le tre del mattino” di Gianrico Carofiglio

Come ti avevo anticipato, ho deciso di dedicarmi un po’ di più – per quando possibile – alla lettura di autori italiani. Lo faccio perché sono conscio di soffrire di un certo grado di esterofilia, ma anche per studiare quello che è il nostro mercato (a fini non proprio disinteressati). Quindi, sebbene ti abbia appena parlato di Paolo Cognetti (con Le otto montagne), rieccomi qui con un altro vendutissimo (nel senso del numero di copie, eh) nostrano: Gianrico Carofiglio. Di suo avevo già letto Ragionevoli dubbi, facente parte della serie dell’avvocato Guerrieri. Tuttavia, come sai, non sono un grande amante né dei gialli né delle serie, quindi ero fuori dal mio campo da gioco. Ho virato, allora, su qualcosa di più affine ai miei gusti, Le tre del mattino, una storia tutta incentrata sul rapporto padre-figlio.

A metà degli anni Ottanta, il diciottenne Antonio e suo padre (del quale non conosciamo il nome) si trovano a dover vagare per le vie di Marsiglia per due giorni e due notti. Il ragazzo non può dormire per 48 ore, si sta sottoponendo a un particolare esame per verificare se soffra o meno di epilessia, e il padre lo aiuta a rimanere sveglio, non dormendo a sua volta. Tra lunghe camminate, chiacchierate, cene e frequentazioni di locali, i due si conoscono molto più di come abbiano fatto fino a quel momento e, grazie alla situazione inconsueta, abbattono quelle barriere che la normalità erige nei rapporti umani. L’intera vicenda è narrata come un flashback, è Antonio che, raggiunta l’età che aveva il padre quella notte, ricorda il passato.

Le tre del mattino è un romanzo molto leggero, veloce (160 pagine, lette in circa un paio d’ore), senza grandi pretese di profondità. Avviene esattamente quello che ti aspetti, come in un buon film – guarda caso – degli anni Ottanta. Senza spoilerare, ti faccio un solo esempio che non rovinerà la lettura: Antonio è vergine e ne parla con il padre, il quale gli racconta la sua prima volta. Ti aspetti che Antonio arriverà a perdere la verginità prima della fine del libro, e così accade.

Anche l’introspezione è limitata a quanto ci si potrebbe aspettare da una trama di questo tipo. Il cambiamento che avviene nei personaggi rispecchia i cliché del genere eighties (il padre che smette di fumare; il figlio che scopre che anche il padre è una persona, prima di essere un genitore) e ti accompagna in una lettura rilassante, priva di traumi emotivi. Ho avuto la sensazione che la storia fosse narrata dal padre, più che dal figlio. Un padre che racconta, con una visione leggermente monolaterale, ciò che gli piacerebbe fosse accaduto in un ideale rapporto padre-figlio.

Mi è piaciuto questo romanzo? Nì. Sì per la leggerezza che gli appartiene e no per… la leggerezza che gli appartiene. Un libro divertente insomma, ma che tra un paio di mesi avrò probabilmente dimenticato.

“Le otto montagne” di Paolo Cognetti

Cosa posso dirti a proposito de Le otto montagne di Paolo Cognetti? Non lo so. È da dieci minuti che sono qui, fermo davanti alla pagina bianca, cercando le parole giuste per descriverti questo romanzo. Raccontarti la trama sarebbe riduttivo (lo farò comunque, tranquillo), citare la vittoria del Premio Strega nel 2017, anche. La verità è che questo libro ti fa sentire piccolo, come un escursionista davanti all’Himalaya (per rimanere in tema).

La storia è semplice, per nulla complessa. È quella di due amici, Pietro e Bruno, e delle loro vite. Entrambi condividono la passione per la montagna, pur avendo caratteri e famiglie molto diverse. Pietro, il narratore, ha un rapporto molto difficile con il padre; Bruno invece, più selvaggio, sembra rapportarsi solo con la natura. Attraverso tre diverse stagioni della maturità, Cognetti li avvicina e li allontana, senza però far loro mai perdere il senso di un legame indissolubile.

Potrebbe sembrare banale, quanto ti ho appena raccontato. Credimi, non lo è, non lo è per nulla. Il livello di profondità che raggiunge l’autore è qualcosa di straordinario, e altrettanto straordinario è il modo nel quale ci riesce. È come se fosse in grado di interpretare l’animo umano, tutto qui. Voglio leggere tutto di Cognetti, tutto. Mi ha fatto venire voglia di scrivere, tanto basta.

Non è una scoperta nuova per me, questa, è una cosa che ho sempre pensato. Quando un’opera è bella, è completa, non se ne può parlare più di tanto. Forse è un limite mio, non lo so. Ma quando un’opera è così, si può solo rimanere lì ad ammirarla. Ecco, è questo che penso de Le otto montagne.

“Dimenticami Trovami Sognami” di Andrea Viscusi

Ti avevo anticipato che mi sarei dedicato alla lettura di qualche autore italiano, no? Ecco.
Certo, per non correre troppi rischi, mi sono diretto su Andrea Viscusi, del quale ti avevo già parlato per l’antologia L’esatta percezione – Nove racconti (la personale che l’associazione RiLL dedica ad autori di particolare talento). Ho fatto bene, te lo anticipo.

Dimenticami Trovami Sognami è un romanzo che si divide in tre parti e in miliardi di universi. Con i dovuti allarmi antispoiler accesi, ti racconto un po’ di trama, senza esagerare. In Dimenticami il protagonista, Dorian, viene selezionato per compiere un innovativo viaggio spaziale. Dovrà stare via per molto, molto tempo e allontanarsi dai suoi affetti, tra i quali la sua compagna Simona. Trovami introduce il personaggio del dottor Novembre, uno psicologo esperto di sogni. Novembre se la vedrà con un paziente particolare che pare avere la capacità di influenzare la realtà. Sognami mescola le carte delle due parti precedenti, delle realtà precedenti, degli universi precedenti… Non aggiungo altro.

Stavo per iniziare questa frase dicendoti che non sono un esperto di fantascienza, che non ne leggo molta e cose così. Poi ho digitato “fantascienza” nella casella di ricerca del blog (per verificare di cosa ti avessi parlato) e mi sono reso conto che tendo a sottostimare la quantità delle mie letture. È vero, probabilmente non potrei essere definito un espertissimo, ma qualcosa l’ho masticato, negli anni. Quindi, con le mie moderate competenze nel settore alieni/viaggispaziali/bracciatentacolateeaffini posso affermare che Viscusi riesce ad aggiungere al genere quel qualcosa che spesso manca: l’emotività. È questa, a mio avviso, la caratteristica più forte che ho apprezzato nel romanzo (non che l’intreccio sia da meno eh, da spaccarsi il cervello). La prima parte della storia, con problemi più terreni, crea l’empatia con i personaggi che ti consente di rimanere loro “attaccato” (concedimi il termine) anche nelle successive, più vicine alla fantascienza classica (e quindi leggermente più fredde). Chapeau.

Non ho letto nemmeno un libro di quelli che l’autore cita nelle note come fonte di ispirazione, magari provvederò. In alcune parti di dialogo con l’Intelligenza Primeva mi sono però tornati alla mente gli scambi con l’entità in Sfera, di Crichton, altro romanzo che mi è piaciuto molto. Non credo che l’associazione sia casuale, anche Viscusi riesce a rendere totalmente credibile quello che scrive, tanto che mentre lo leggi ti pare sia tutto scientificamente dimostrato.

Bene, è quasi mezzanotte e potrei andare a dormire. Ma cosa sognerò? Già perché, se le coincidenze non esistono, i miei sogni potrebbero cominciare a diventare un problema, come quelli del protagonista. Viscusi dichiara (sempre nelle note) di avere un’ossessione per il numero 42. L’editore del libro è Zona 42. Questo blog si chiama PensieroProfondo42. Quindi, sarò io a retconizzare o verrò retconizzato?

“La regina rossa” di Sara Di Furia

Per una volta partirò parlandoti del contenitore, invece che del contenuto. Sì, lo so, è una cosa superficiale, ma tanto ci viviamo in un mondo superficiale, quindi non vedo perché tu ti debba stupire. Comunque, questo libro è proprio bello fisicamente, è rilegato in un cartoncino rigido che da subito l’ha reso ai miei occhi, e soprattutto alle mie mani, un oggetto di pregio. In questa specie di atmosfera feticciamente cronenberghiana continuo inconsciamente a tastarlo e a palpeggiarlo, prima o poi finirò per morderne gli spigoli…

Bene, veniamo a noi. Ho tentato di divagare per non cascare da subito nel campanilismo che mi tenta (è tentacolare, direbbe la Giovanna de Il ragazzo di campagna) e mi spinge a parlarti bene di un’opera nata dalla penna (come se poi si scrivesse ancora a penna) di un’autrice originaria di Brescia [ridente cittadina del nord Italia immersa in un bucolico contesto a metà tra il lago e la montagna], come me.
Sì, insomma, veniamo a questo La regina rossa di Sara Di Furia.

Romanzo gotico, fantasy, horror, storico. Un multiatmosfera, in pratica, che ho trovato particolarmente idoneo per accompagnare l’arrivo fulmineo dell’inverno (non credo si possa leggere un romanzo gotico con il caldo, parere personale). La trama, come sempre, te la accenno soltanto.
Inghilterra, 1863. Una bambina, Christianne, viene adottata da una ricca e nobile famiglia, i Klein. Se si escludono le due sorelle più piccole, è sgradita da subito a tutti, poichè presenta dei segni ascrivibili al Male: un vistoso neo e l’abbozzo di un sesto dito. Passato qualche anno, e in seguito a un paio di disgrazie, la ragazza si trova effettivamente in situazioni paranormali che la costringono a fare i conti con sé stessa. Che sia davvero una strega? Perché vede gli spiriti dei morti? Non aggiungo altro, se non che c’è un costante rimando alle opere di Edgar Allan Poe, altrimenti ti spoilero troppo (hai visto che ho iniziato anche io a utilizzare questi termini stronzeggianti alla moda, eh?).

Mi è piaciuto? Sì, mi è piaciuto.
È un romanzo scorrevole e leggero, sono circa 200 pagine che vanno via veloci. C’è una parte centrale in cui le sottotrame amorose hanno rischiato di prendere un po’ troppo il sopravvento, per i miei gusti, ma questo probabilmente perché sono io a essere ostile a un certo tipo di emotività di stampo femminile (insomma, nell’immaginare questa vergine in costume, che desidera il suo precettore, già fantasticavo un’atmosfera “ott”, la versione hot dell’800). Per il resto l’autrice ha costruito una storia nella quale misteri e enigmi ti invogliano a girare pagina per scoprire come prosegue la vicenda. Ho apprezzato, peraltro, alcune cose di cui non posso parlarti troppo (per ovvi motivi), come la riflessione sull’immortalità e un finale che non è scontato.
Bene, recupererò il romanzo successivo di Sara Di Furia, Jack. Questo dovrebbe bastarti.