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“Le otto montagne” di Paolo Cognetti

Cosa posso dirti a proposito de Le otto montagne di Paolo Cognetti? Non lo so. È da dieci minuti che sono qui, fermo davanti alla pagina bianca, cercando le parole giuste per descriverti questo romanzo. Raccontarti la trama sarebbe riduttivo (lo farò comunque, tranquillo), citare la vittoria del Premio Strega nel 2017, anche. La verità è che questo libro ti fa sentire piccolo, come un escursionista davanti all’Himalaya (per rimanere in tema).

La storia è semplice, per nulla complessa. È quella di due amici, Pietro e Bruno, e delle loro vite. Entrambi condividono la passione per la montagna, pur avendo caratteri e famiglie molto diverse. Pietro, il narratore, ha un rapporto molto difficile con il padre; Bruno invece, più selvaggio, sembra rapportarsi solo con la natura. Attraverso tre diverse stagioni della maturità, Cognetti li avvicina e li allontana, senza però far loro mai perdere il senso di un legame indissolubile.

Potrebbe sembrare banale, quanto ti ho appena raccontato. Credimi, non lo è, non lo è per nulla. Il livello di profondità che raggiunge l’autore è qualcosa di straordinario, e altrettanto straordinario è il modo nel quale ci riesce. È come se fosse in grado di interpretare l’animo umano, tutto qui. Voglio leggere tutto di Cognetti, tutto. Mi ha fatto venire voglia di scrivere, tanto basta.

Non è una scoperta nuova per me, questa, è una cosa che ho sempre pensato. Quando un’opera è bella, è completa, non se ne può parlare più di tanto. Forse è un limite mio, non lo so. Ma quando un’opera è così, si può solo rimanere lì ad ammirarla. Ecco, è questo che penso de Le otto montagne.

Recensione di “L’AMICO GIUSTO” di Marco Cesari — Il Trio del Mangialibro

Una bellissima recensione de L’amico giusto da parte de Il Trio del Mangialibro. Grazie.

“Da bambino bucavo la carta con i pennarelli scarichi. Sperando di resuscitarne la tonalità, insistevo nello stesso punto fino a consumare il foglio. Crescendo, ho capito che le emozioni e le esperienze non sono diverse dai pennarelli: dopo averle provate la prima volta, le successive non hanno mai la stessa forza, non importa quanto lo […]

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“Trilogia siberiana: Educazione siberiana – Caduta libera – Il respiro del buio” di Nicolai Lilin

Ti anticipo da subito che non ho intenzione di entrare nel vivo della polemica/indagine/complotto per stabilire se quanto racconta Nicolai “Kolìma” Lilin nei suoi romanzi sia realmente frutto della sua esperienza personale o meno. So che è tutto in discussione e che studiosi di vari campi e nazionalità hanno messo in dubbio perfino l’esistenza stessa degli Urca, la popolazione della Transnistria da cui lo scrittore afferma di essere discendente (una critica molto simile a quella messa in atto nei confronti del Papillon di Charrière). Io non ho una conoscenza abbastanza approfondita, né una competenza storica adeguata, per capire da quale parte stia la verità. Ho letto la Trilogia siberiana di Lilin perché mi ha sempre incuriosito, senza pretesa di capire dove finisse la finzione e cominciasse la realtà.
Così, giusto per saperlo, prima che te ne parli.

Questo pesante (solo nella sostanza, non nei contenuti) tomo della Einaudi è composto da circa 950 pagine e comprende tre romanzi, che ti descrivo brevemente qui di seguito.

Educazione siberiana
Il più famoso dei tre, anche grazie al bell’adattamento di Gabriele Salvatores con John Malkovich. Qui, proprio come nel film, è descritta l’infanzia e la giovinezza di Kolìma, cresciuto in una comunità di “criminali onesti”, cioè criminali con un alto senso dell’onore e del rispetto delle regole interne al gruppo. Kolìma impara a difendersi, lottare, fare tatuaggi, vivere in carcere e molte altre cose necessarie alla formazione personale di un criminale onesto. Ed è, infatti, proprio di un romanzo di formazione che si parla, il mio preferito della trilogia.

Caduta libera
Kolìma viene forzatamente arruolato per combattere la guerra in Cecenia. Questo è senza dubbio un romanzo di guerra, meno vario rispetto al primo ma comunque molto coinvolgente. Lo scrittore descrive diverse azioni militari avvenute durante il conflitto ceceno, entrando in particolari sia per quanto riguarda la cruenza della guerra di per sé, che per l’utilizzo e la tipologia delle armi. C’è più sangue, più morte e più violenza. Quello che ne esce è la mancanza di un confine preciso tra ciò che è legale e ciò che non lo è. Se nel primo romanzo potevi pensare “questi Urca sono dei mafiosi” ora Lilin sposta l’attenzione sulla criminalità a livello nazionale, riuscendo bene a far capire che la linea di demarcazione tra Bene e Male sia davvero labile quando entrano in gioco gli interessi economici dello Stato (e qui tutto il mondo è paese, diciamocelo).

Il respiro del buio
Nella prima metà del romanzo Kolìma, congedato dal servizio militare, soffre di PTSD (il disturbo post traumatico da stress) e fatica a riadattarsi alla vita quotidiana, anche perché nessuno vuole dare un opportunità di lavoro a un veterano. Questa è forse la parte più “stanca” di tutta la trilogia, ma dura solo un centinaio di pagine. Poi il protagonista si riprende, grazie a un periodo trascorso in Siberia immerso nella natura con il nonno, e trova un ingaggio come mercenario tramite un generale con cui ha mantenuto i contatti. Criminalità, Stato e interessi personali si mescolano, chiudendo il cerchio. La sensazione è quella che non si salvi nulla, che non esista la “pace” nel cuore degli uomini.

Ho letto Trilogia siberiana in poco più di una settimana, e questo dovrebbe bastare per farti capire quanto l’abbia trovato scorrevole e coinvolgente. Ciò che mi è piaciuto di più è stata la capacità di Lilin di addentrarsi nello specifico di ogni situazione, descrivere dettagli e caratteristiche che non conoscevo, rendendo i romanzi in qualche modo molto informativi. Si passa infatti dalle regole carcerarie “interne” alla tecnica dei tatuaggi, dalla diversa struttura di armi e pallottole alle norme che regolano la comunità degli Urca (esistente o meno che sia). Tutto viene approfondito, anche solo la modalità con cui si condivide il čifir (bevanda russa simile al té), senza tuttavia che la lettura diventi mai pesante.

Cercherò prossimamente di capire quanto di vero ci sia nei racconti di Lilin, ma in ogni caso credo che continuerò a leggerlo. Se anche dovesse risultare non essere un Urca, rimarrà comunque un narratore eccezionale.

“Vite pericolose di bravi ragazzi” di Chris Fuhrman

Quando leggo libri come questo (pochi) mi chiedo perché non sia un titolo estremamente noto a tutti. Cioè, dovrebbe essere uno di quei romanzi che dici: «Hai presente Vite pericolose..?» e il tuo interlocutore fa cenno di sì con la testa, perché lo conosce chiunque. Sto cercando di contenere quello che penso, per mantenere un po’ di quel distacco emotivo necessario alla credibilità che, per convenzione, non dovrebbe mai sfociare nella tifoseria estrema. Ma no, anzi, me ne sbatto: Vite pericolose di bravi ragazzi è uno dei più bei romanzi sull’adolescenza che abbia mai letto. E ne ho letti.

Ora però sono terribilmente incazzato. Già, perché Fuhrman è morto di cancro a 31 anni, e questa è la sua unica opera. Avrei voluto non leggerlo, e per un po’ ci sono riuscito, ma questo dannato libro mi ha inseguito sugli scaffali delle librerie, fino a cadermi in mano in una rivendita di stock editoriali.

La trama è questa: la fine dell’adolescenza.
Poi c’è tutto il resto, ma quello che conta è la capacità incredibile che ha avuto l’autore di descrivere il breve periodo di confine appena prima dell’età adulta. Ci sono sbronze, risse, amori, sesso, alcool, droga, amicizia, morte. E c’è Francis, che vive tutto sulla sua pelle, come ha fatto chiunque. Francis è il lettore, è lo sguardo insicuro e timoroso della prima esperienza. E’ la sensazione di fare cose cattive, anche quando non lo sono, ma lo appaiono perché ancora sconosciute.

Grazie Chris, avrei preferito non scoprirti.