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“Le tre del mattino” di Gianrico Carofiglio

Come ti avevo anticipato, ho deciso di dedicarmi un po’ di più – per quando possibile – alla lettura di autori italiani. Lo faccio perché sono conscio di soffrire di un certo grado di esterofilia, ma anche per studiare quello che è il nostro mercato (a fini non proprio disinteressati). Quindi, sebbene ti abbia appena parlato di Paolo Cognetti (con Le otto montagne), rieccomi qui con un altro vendutissimo (nel senso del numero di copie, eh) nostrano: Gianrico Carofiglio. Di suo avevo già letto Ragionevoli dubbi, facente parte della serie dell’avvocato Guerrieri. Tuttavia, come sai, non sono un grande amante né dei gialli né delle serie, quindi ero fuori dal mio campo da gioco. Ho virato, allora, su qualcosa di più affine ai miei gusti, Le tre del mattino, una storia tutta incentrata sul rapporto padre-figlio.

A metà degli anni Ottanta, il diciottenne Antonio e suo padre (del quale non conosciamo il nome) si trovano a dover vagare per le vie di Marsiglia per due giorni e due notti. Il ragazzo non può dormire per 48 ore, si sta sottoponendo a un particolare esame per verificare se soffra o meno di epilessia, e il padre lo aiuta a rimanere sveglio, non dormendo a sua volta. Tra lunghe camminate, chiacchierate, cene e frequentazioni di locali, i due si conoscono molto più di come abbiano fatto fino a quel momento e, grazie alla situazione inconsueta, abbattono quelle barriere che la normalità erige nei rapporti umani. L’intera vicenda è narrata come un flashback, è Antonio che, raggiunta l’età che aveva il padre quella notte, ricorda il passato.

Le tre del mattino è un romanzo molto leggero, veloce (160 pagine, lette in circa un paio d’ore), senza grandi pretese di profondità. Avviene esattamente quello che ti aspetti, come in un buon film – guarda caso – degli anni Ottanta. Senza spoilerare, ti faccio un solo esempio che non rovinerà la lettura: Antonio è vergine e ne parla con il padre, il quale gli racconta la sua prima volta. Ti aspetti che Antonio arriverà a perdere la verginità prima della fine del libro, e così accade.

Anche l’introspezione è limitata a quanto ci si potrebbe aspettare da una trama di questo tipo. Il cambiamento che avviene nei personaggi rispecchia i cliché del genere eighties (il padre che smette di fumare; il figlio che scopre che anche il padre è una persona, prima di essere un genitore) e ti accompagna in una lettura rilassante, priva di traumi emotivi. Ho avuto la sensazione che la storia fosse narrata dal padre, più che dal figlio. Un padre che racconta, con una visione leggermente monolaterale, ciò che gli piacerebbe fosse accaduto in un ideale rapporto padre-figlio.

Mi è piaciuto questo romanzo? Nì. Sì per la leggerezza che gli appartiene e no per… la leggerezza che gli appartiene. Un libro divertente insomma, ma che tra un paio di mesi avrò probabilmente dimenticato.

“Le otto montagne” di Paolo Cognetti

Cosa posso dirti a proposito de Le otto montagne di Paolo Cognetti? Non lo so. È da dieci minuti che sono qui, fermo davanti alla pagina bianca, cercando le parole giuste per descriverti questo romanzo. Raccontarti la trama sarebbe riduttivo (lo farò comunque, tranquillo), citare la vittoria del Premio Strega nel 2017, anche. La verità è che questo libro ti fa sentire piccolo, come un escursionista davanti all’Himalaya (per rimanere in tema).

La storia è semplice, per nulla complessa. È quella di due amici, Pietro e Bruno, e delle loro vite. Entrambi condividono la passione per la montagna, pur avendo caratteri e famiglie molto diverse. Pietro, il narratore, ha un rapporto molto difficile con il padre; Bruno invece, più selvaggio, sembra rapportarsi solo con la natura. Attraverso tre diverse stagioni della maturità, Cognetti li avvicina e li allontana, senza però far loro mai perdere il senso di un legame indissolubile.

Potrebbe sembrare banale, quanto ti ho appena raccontato. Credimi, non lo è, non lo è per nulla. Il livello di profondità che raggiunge l’autore è qualcosa di straordinario, e altrettanto straordinario è il modo nel quale ci riesce. È come se fosse in grado di interpretare l’animo umano, tutto qui. Voglio leggere tutto di Cognetti, tutto. Mi ha fatto venire voglia di scrivere, tanto basta.

Non è una scoperta nuova per me, questa, è una cosa che ho sempre pensato. Quando un’opera è bella, è completa, non se ne può parlare più di tanto. Forse è un limite mio, non lo so. Ma quando un’opera è così, si può solo rimanere lì ad ammirarla. Ecco, è questo che penso de Le otto montagne.

“Later” di Stephen King

Later l’ho letto in due giorni, è un romanzo che si fa divorare. Non tanto per la trama (che non ha nulla di straordinario) quanto perché quando King parla dell’adolescenza o, comunque, mette in campo un protagonista ragazzino, non posso far altro che rimanere ipnotizzato.

Jamie è il figlio di un’agente letteraria, non sa chi sia suo padre e vede le persone morte (l’avevo detto che la storia non era straordinaria, no?). Va tutto abbastanza bene, fa amicizia con un anziano vicino di casa, aiuta qualche trapassato e via dicendo. La sua vita scorre regolare tra alti e bassi, fino a quando non incontra il Male. Mi fermo.

Per qualche motivo ero convinto che questo romanzo fosse un poliziesco con risvolti paranormali: non lo è (un poliziesco, intendo). Sì, la compagna della mamma (strizzatina d’occhio) di Jamie è una poliziotta, ma finisce qui. Non si può nemmeno definire un giallo, Later è un horror di formazione, genere del quale il Re è… Re, appunto. Insomma, non farti troppo influenzare dalla versione americana della copertina, che suggerisce un qualche tipo di mistery (che poi è uguale alla copertina italiana, ma c’è quella pistola con la scritta Hard case crime che, insomma…)

Ancora una volta King ti riporta a quelle amicizie caratterizzate da una grande differenza d’età (l’ultima era ne Il telefono del signor Harrigan, il primo racconto di Se scorre il sangue) che hanno contraddistinto diversi suoi romanzi. Lo fa bene, lo sa fare, lo sappiamo.
Oltre a tutto questo, in Later, c’è una sorta di dedica al mondo che gira attorno ai romanzi e che resta dietro le quinte, quello degli agenti letterari.

Non vorrei che fraintendessi, però, ora che ci penso. Sebbene le similitudini con Il sesto senso siano molte, il romanzo di King non ha nulla a che fare con il film di Shyamalan. La trama si sviluppa in tutt’altro modo e l’intervento del Male (con qualche similitudine con il male supremo di Derry, IT) è molto più approfondito. Se hai confidenza con il regno immaginifico creato da King, non ti sfuggirà di certo il “rituale” che prevede il mordersi la lingua a vicenda con il nemico. La tartaruga è dietro l’angolo, insieme ai Vettori.

Non credo che Later verrà ricordato come uno dei migliori libri di King, però lui ci ha buttato dentro parecchio, questo è indubbio. È un bel punto di connessione tra molte storie, che gli appassionati si potranno godere appieno. È più un romanzo sul come, che sul cosa. È più una sintesi sullo stile, che una nuova aggiunta. A me, comunque, è piaciuto molto, perché ha la leggerezza di Joyland. E poi lo sai che io con Stephen mi sento a casa, ed è in assoluto l’unico autore con il quale mi succeda.

Ora attendo con ansia Billy Summers (uscita USA in agosto). Ah, e ho già preordinato il saggio Guns – Contro le armi, che uscira a maggio in sole diecimila copie (Marotta&Cafiero editori, Scampia).
Chissene della regina: Dio salvi il Re.

Ho letto quasi tutto di Stephen King (me ne mancano 3), ma quelli di cui ti ho parlato sul blog sono questi:
Blaze (2007, come Richard Bachman)
Duma Key (2008)
Revival (2014)
Mr. Mercedes (2014)
Chi perde paga (2015)
Il bazar dei brutti sogni (2015)
Fine turno (2016)
La scatola dei bottoni di Gwendy (2017, con Richard Chizmar)
Sleeping Beauties (2017, con Owen King)
The Outsider (2018)
Elevation (2018)
L’istituto (2019)
Se scorre il sangue (2020)
Later (2021)

“Orsanti” di Arturo Curà

Ho comprato questo libro pensando fosse un saggio, per scoprire solo successivamente, quando ormai l’avevo tra le mani, che si trattasse di un romanzo. Orsanti, di Arturo Curà, rientra tra le letture che sto affrontando per studiare gli orsi e il mondo che li circonda(va). Se ricordi, in merito a queste mie “indagini”, poco tempo fa ti ho parlato anche di Gli orsi delle Alpi – Chi sono e come vivono di Filippo Zibordi. Nonostante le mie aspettative fossero diverse, tuttavia, Orsanti mi è piaciuto davvero tanto. È un romanzo carico di storia e di nostalgia nei confronti di una comunità, quella degli “zingari italiani”, ormai perduta.

Gli orsanti, così come i cammellanti, gli scimmianti e, anche , i musicanti, erano quegli uomini (le donne erano poche) che si muovevano dal paese d’origine andando a cercare fortuna in giro per l’Europa con i loro spettacoli. Carovane molto simili a quelle del circo, anche se di dimensioni più ridotte. Un fenomeno nato tra il Settecento e l’Ottocento, ma che ha poi avuto strascichi fino alla prima metà del Novecento.
Io non li conoscevo, anche se la foto in copertina non mi è risultata del tutto nuova, quindi  avevo forse già visto questi ammaestratori di orsi.

Arturo Curà, mancato purtroppo nel 2018, ha dedicato molti studi agli orsanti e li ha condensati, bene, nel romanzo. La storia è quella di un ragazzo che lascia il suo paese perché ha la vocazione per il mestiere di orsante e crea dal nulla la propria compagnia, trasformandola poi in un circo (attività con molte similitudini, come dicevo). I problemi che incontra durante il suo percorso sono quelli che incontravano tutti quelli che sceglievano questa strada. La lontananza da casa (stavano via anche anni), dai famigliari, l’incertezza nel futuro, l’instabilità affettiva. Insomma, tutto ciò che riguarda una tipologia di vita zingara. Di base c’era anche un grande bisogno di libertà e non avere radici stabili. In Orsanti questo dualismo è molto forte, la nostalgia si scontra continuamente con la voglia di essere, appunto, liberi da tutto e da tutti.

Io cercavo notizie riguardo alle condizioni in cui venivano tenuti gli animali e ai metodi utilizzati per ammaestrarli. In verità ho trovato poco a riguardo, il romanzo si concentra molto di più sulla vicenda umana dei personaggi. Non è stato un male – non ci vuole tanto a immaginare che le tecniche di addestramento fossero crudeli (viene solo citato il modo in cui insegnavano all’orso a ballare: in una botte rovente) – mi ha aperto gli occhi su un tipo di vita che non conoscevo immergendomi perfettamente nel contesto.
Davvero un bel romanzo, non l’avrei scovato se non stessi compiendo questa mia ricerca sugli orsi. È un peccato, romanzi del genere dovrebbero essere molto più noti. Orsanti fonde perfettamente la narrativa con la storia, ed è una cosa abbastanza rara.

Nel frattempo ho scoperto che esiste un Museo degli Orsanti a Vigoleno (Piacenza). A questo punto dovrò visitarlo, per forza.

“A ovest di Roma” di John Fante

Di Fante avevo già letto i quattro romanzi che compongono la saga di Arturo Bandini, il cui più conosciuto è Chiedi alla polvere, grazie alla trasposizione filmica con Colin Farrell (che non ho visto). Conoscevo già il suo stile di scrittura, ma in qualche modo lo avevo dimenticato. Avevo dimenticato la tristezza poetica con cui descrive anche le situazioni più semplici, avevo dimenticato quanto mi piacesse.

Questo A ovest di Roma è stato pubblicato postumo, così come altri suoi libri, dalla moglie Joyce. Due racconti qui: uno lungo, Il mio cane Stupido, e uno corto, L’orgia. Ho preferito il primo, che è poi un breve romanzo, ma anche il secondo non mi è dispiaciuto. Entrambi parlano di contesti familiari scossi da un evento che non fa altro che portare alla luce problematiche già preesistenti.

Il linguaggio è quello di Fante, ironico, a volte volgare e crudo, incredibilmente moderno. Non è chiaro a che anni risalgano questi racconti, essendo postumi, ma ricordo che anche nel leggere Aspetta primavera, Bandini (1938) ero rimasto colpito dall’attualità espressiva, senza alcun filtro. La situazione non cambia nemmeno con questa raccolta.

Bukowski disse che Fante era il suo Dio, e questo dovrebbe bastare a convincerti a leggerlo, se ancora non l’hai fatto.

“La leggenda del santo bevitore” di Joseph Roth

Avevo un’oretta disponibile e mi sono trovato questo libretto tra le mani. E’ un racconto veloce veloce di circa sessanta pagine.

La trama è nota. Un senzatetto alcolizzato contrae un debito con un generoso sconosciuto, che lo elemosina di alcuni denari. Unica sua missione (non troppo convinta), e voto nella vita, diventerà quella di restituire il debito sotto forma di donazione a Santa Teresa, nella chiesa di Santa Maria di Batignolles. Ogni pretesto sarà valido per posticipare questa azione.

Il film non l’ho visto, però avevo letto critiche molto felici al libro e quindi mi sono buttato. A mio parere niente di particolare, non ho trovato riflessioni sulla vita di rilevante interesse. Un po’ tirata, si potrebbe azzardare una sorta di critica su come il denaro cambi e influisca sulle intenzioni e le personalità. E’ un misto tra un Bukowski trattenuto e la visione della vita da parte di un alcolizzato (che poi è la stessa cosa).
Preferisco Bukowski, appunto. O John Fante.