Archivi tag: recensione

“La conquista del K2” di Ardito Desio

Nel 2024 si è celebrato il 70° anniversario della spedizione italiana che per prima, nel 1954, conquistò la cima del K2. La conquista del K2 è il resoconto che Ardito Desio scrisse all’epoca, ristampato oggi nella collana Exploits di Corbaccio (una collana che ho scoperto da poco ma che presenta un’infinità di titoli interessanti e che quindi frequenterò molto).

La cosa che mi ha colpito, ancor prima di leggere il libro, è stata l’età di Desio all’epoca dei fatti. Classe 1897, Desio aveva 57 anni quando guidò la spedizione. Certo, rimase al campo base e le fatiche più rischiose gravarono sulle spalle di alpinisti più giovani (tra i quali un ventiquattrenne Walter Bonatti), tuttavia fa impressione pensare a quanta energia dovesse avere in corpo un quasi sessantenne in un periodo storico nel quale a sessantanni eri ormai “anziano” (nel dubbio è sufficiente dare un’occhiata alle foto di famiglia e osservare con cura i suoi coetanei di allora). Desio, evidentemente, era fatto di un’altra pasta.

La lettura è molto scorrevole e coinvolgente, non sente per nulla il peso del tempo. È presente anche un interessante inserto fotografico, molto utile per dare un volto ai protagonisti e una fisicità ai luoghi (un paio di foto originali, tuttavia, sono talmente poco definite da risultare inutili, ma questo è più divertente che fastidioso). La ricostruzione di Desio è avvincente – ad esclusione delle ultime pagine dedicate agli scopi scientifici della spedizione – tutta la parte alpinistica scorre che è un piacere. Onestamente non me lo aspettavo, sembra un libro scritto ieri e non settant’anni fa.

Mi fa poi sempre molto riflettere pensare che queste prime ascensioni sugli ottomila venivano tentate con un equipaggiamento tecnico “primitivo”, rispetto agli standard ai quali siamo abituati oggi. Probabilmente un normale escursionista odierno che compie un trekking di medio livello sarebbe molto meglio equipaggiato.

Questa è anche la spedizione della polemica di Bonatti sulla ricostruzione di Desio. Non mi prolungherò sull’argomento (trovi davvero tanto online) ma, principalmente, riguarda un contenzioso sull’utilizzo delle bombole di ossigeno. Il tempo (il tanto tempo, quasi cinquant’anni) ha dato ragione a Bonatti che riteneva ci fosserò alcune, chiamiamole, imprecisioni nel resoconto di Desio e nelle modalità di conquista della vetta da parte di Lino Lacedelli e Achille Compagnoni. Per come sono andate le cose, forse Bonatti si sarebbe meritato più di tutti di arrivare per primo in cima al K2.

Come ti dicevo, ho in mente di recuperare altri titoli della collana Exploits, quindi ci risentiremo presto.

Libri sul genere storie vere/sopravvivenza estrema che ti consiglio perché mi sono piaciuti molto (ecco perché non c’è Walden di Thoreau nell’elenco):
12 anni schiavo di Solomon Northup (1853)
La verità sul Titanic di Archibald Gracie (1913)
Papillon di Henri Charrière (1969)
Tabù di Piers Paul Read (1974)
Verso il Polo con Armaduk di Ambrogio Fogar (1983)
127 ore di Aron Ralston (2004)
Wild di Cheryl Strayed (2012)
Fuga dal Campo 14 di Blaine Harden (2012)

Nella serie Exploits di Corbaccio:
La conquista del K2 di Ardito Desio (1954)
Nelle terre estreme di Jon Krakauer (1996)
Aria sottile di Jon Krakauer (1997)
Z – La città perduta di David Grann (2005)

“Hap & Leonard – Mucho Mojo” di Joe R. Lansdale

Leonard eredita una casa e un po’ di denaro dal defunto zio Chester. La casa è in un pessimo quartiere e necessita di una ristrutturazione, per questi motivi Leonard ospita Hap, sottraendolo a un lavoro precario, e i due insieme cominciano i lavori. Sotto la casa trovano il corpo di un bambino e tutta una serie di prove che apparentemente fanno sembrare zio Chester un serial killer pedofilo… Ovviamente è solo l’inizio di una storia che porterà a una lunga indagine, scazzottate (anche con i vicini di casa), amori difficili e altrettanto difficili collaborazioni con la polizia.
D’altra parte Mucho Mojo è un’espressione che ha un significato con molte sfaccettature, ma quello che è chiaro è che indichi una sfiga malefica.

Hai presente quello che ti dicevo di Una stagione selvaggia? Che mi sarebbe piaciuto avere un filino in più di empatia con i personaggi e una maggiore profondità psicologica? Ecco, Lansdale, in qualche modo, dal passato, mi ha ascoltato. Non che il romanzo precedente non mi fosse piaciuto ma Mucho Mojo, a mio parere, gli è di gran lunga superiore. La struttura è più complessa e coinvolgente, vieni catturato dalla curiosità di sapere cosa sia realmente successo ai bambini scomparsi (eh sì, perché sono più di uno). Inoltre anche il finale mi è parso costruito meglio, senza l’accelerazione delle ultime pagine che avevo notato nel primo Hap & Leonard. Probabilmente tutto questo è dovuto anche a una maggiore lunghezza del romanzo, che sfiora le 300 pagine.

Sono contento – Hap un po’ meno perché soffre le pene d’amore e Leonard vive i disagi legati alla propria omosessualità – ma io sono contento proprio perché questa volta, Lansdale, è riuscito a farmi soffrire (e ogni tanto gioire) insieme ai suoi personaggi. Aggiunto al suo incredibile stile e alle sue fantastiche idee, questo diventa un mix che si avvicina alla perfezione.

Ci sentiamo presto con Il mambo degli orsi, Hap & Leonard hanno tutte le carte in regola per diventare una droga, io ti avviso.

 

Libri che ho letto di Joe R. Lansdale:
La morte ci sfida (1984)
La sottile linea scura (2002)
Notizie dalle tenebre (2014)

Trilogia Drive-in:
Il drive-in (1988)
Il drive-in 2 (non uno dei soliti seguiti) o Il giorno dei dinosauri (1989)
La notte del drive-in 3. La gita per turisti (2005)

Ciclo Hap & Leonard:
Una stagione selvaggia (1990)
Mucho Mojo (1994)

“La voce degli uomini freddi” di Mauro Corona

La voce degli uomini freddi è il diciannovesimo libro di Mauro Corona che leggo. Non ho letto tutto quello che ha scritto ma posso dire, ormai, di avere una certa conoscenza dell’autore e dei temi che gli sono cari.

Questo romanzo parla di un popolo laborioso e silente che vive tra le montagne, dove nevica sempre, anche d’estate. Dieci secoli di storia, tante tragedie e quasi nessuna gioia: questa è la vita degli uomini freddi. Vittime di valanghe e esondazioni, incompresi dal mondo moderno e osteggiati dal progresso delle città, gli uomini freddi cercano di sopravvivere portando avanti valori e usanze di un tempo antico, che poco ha a che fare con la frenesia odierna.

Raccontato in gran parte con uno stile fiabesco, La voce degli uomini freddi è praticamente privo di dialoghi. Corona narra le gesta di un popolo senza fermarsi troppo sui singoli elementi. C’è qualche storia relativa a personaggi caratteristici, ma non si spinge mai, per capirci, a dare un nome ai soggetti di cui parla. Uno stile che mi ha ricordato molto La fine del mondo storto, uno stile che si presta molto bene a un racconto e meno bene a un romanzo.

Le intenzioni sono buone, i messaggi ottimi, il metodo lascia a desiderare. Corona mi trova d’accordo su buona parte di quello che comunica, il problema è che la modalità di comunicazione inizia un po’ a sembrare quella di un vecchio che dice: «Cosa ne sapete voi dei sacrifici!»
Il boomerismo, insomma, è dietro l’angolo.
Anche la metafora – per nulla velata – con la tragedia del Vajont non può che trovarmi concorde: l’accusa ai potenti e ai giochi di interesse economico riproduce ciò che realmente è avvenuto nel 1963 e non c’è nulla da obiettare. Si poteva essere più sottili? Sì, ma forse è anche vero che tante persone, per comprendere, hanno bisogno che vengano loro spiattellate davanti le cose senza troppi giri di parole… non lo so, magari anche Corona potrebbe avere le sue ragioni nello scegliere questo stile di comunicazione con i suoi lettori.

Ho finito i libri di Corona che avevo sulla mensola, in definitiva non penso che ne arriveranno altri. Credo che questo autore mi abbia detto tutto quello che poteva dirmi o, forse, tutto quello che ero disposto a sentirmi ripetere.

Libri che ho letto di Mauro Corona:
Il volo della martora (1997)
Le voci del bosco (1998)
Nel legno e nella pietra (2003)
Aspro e dolce (2004)
L’ombra del bastone (2005)
Storie del bosco antico (2005)
I fantasmi di pietra (2006)
Vajont: quelli del dopo (2006)
Cani, camosci, cuculi (e un corvo) (2007)
Storia di Neve (2008)
Il canto delle manére (2009)
La fine del mondo storto (2010)
Come sasso nella corrente (2011)
La casa dei sette ponti (2012)
Venti racconti allegri e uno triste (2012)
La voce degli uomini freddi (2013)
Confessioni ultime (2013)
Quasi niente con Luigi Maieron (2017)
L’ultimo sorso – Vita di Celio (2020)

“Hap & Leonard – Una stagione selvaggia” di Joe R. Lansdale

Ho iniziato relativamente da poco, con grande colpa e rammarico, a leggere Lansdale. Avevo deciso di lasciare per ultimo il ciclo di Hap & Leonard poiché a me le serie, anche letterarie, non fanno impazzire. Tuttavia ho trovato al mercatino la raccolta Einaudi che contiene i primi tre romanzi del ciclo e non ho saputo resistere… Li affronterò comunque uno alla volta e quindi, rigorosamente in ordine cronologico, sono partito da Una stagione selvaggia. Al momento credo che i romanzi di H&L siano tredici più due raccolte di racconti, se non ho capito male.

In quarta di copertina il duo viene descritto come una “coppia di investigatori”, tuttavia in questo primo episodio la situazione non è così definita. Immagino che proseguendo con le avventure si vada chiarendo meglio questa classificazione. Il genere è senza dubbio noir, tutti i personaggi sono abbastanza particolari e borderline, lo stile è quello ironico e pulp che, per ora, ha caratterizzato Lansdale, almeno nelle mie letture.

Brevemente, Hap & Leonard vengono descritti come una coppia di amici bianco/nero (quest’ultimo gay) che trascorre le giornate sparando ai piattelli nel retro della casa di Hap. Qui, a un certo punto, si presenta la femme fatale che li coinvolge nella ricerca di un malloppo, rigorosamente frutto di una rapina. Seguono una serie di complicazioni tra le quali immersioni nelle paludi, tradimenti, sparatorie e omicidi. Tutto in leggerezza, tutto divertente.

Ho letto Una stagione selvaggia in quattro giorni, il romanzo è piuttosto breve, circa 180 pagine, e soprattutto molto scorrevole. Quello che spero per il futuro è di trovare un po’ più di profondita psicologica dei personaggi, così da potermici affezionare (altrimenti con tanti episodi rischio di stufarmi, mi conosco). Per ora mi sono divertito molto, devo ammetterlo, Lansdale non mi ha deluso nemeno questo volta.
Ci risentiamo presto con Mucho Mojo, il secondo episodio.

Libri che ho letto di Joe R. Lansdale:
La morte ci sfida (1984)
La sottile linea scura (2002)
Notizie dalle tenebre (2014)

Trilogia Drive-in:
Il drive-in (1988)
Il drive-in 2 (non uno dei soliti seguiti) o Il giorno dei dinosauri (1989)
La notte del drive-in 3. La gita per turisti (2005)

Ciclo Hap & Leonard:
Una stagione selvaggia (1990)

“In nome del cielo” di Jon Krakauer

Ho conosciuto Jon Krakauer grazie a Nelle terre estreme, ovvero il libro in cui il giornalista e scrittore racconta la storia di Christopher “Supertramp” McCandless. È stato amore a prima lettura, proseguito poi con il racconto della tragedia dell’Everest in Aria sottile. Oltre a In nome del cielo, del quale ti dirò a breve, ho recuperato anche Senza consenso, un libro inchiesta sull’abitudine allo stupro nei campus americani. Dal 2003, infatti, Krakauer, che prima era più conosciuto per storie riguardanti la montagna e l’alpinismo, ha iniziato anche a dedicarsi al giornalismo investigativo.

In nome del cielo utilizza la truculenta storia dei fratelli Lafferty – da noi forse poco conosciuta – come aggancio per poter indagare il mondo della Chiesa di Gesù dei Santi degli Ultimi Giorni e, in particolare, dei mormoni fondamentalisti. È stata una lettura molto interessante anche perché io, di questa religione, non conoscevo molto. Pur essendo un culto molto seguito negli Usa, quello del mormonismo è un fantasy (scusa, non ho resistito) nato relativamente di recente: il suo fondatore ne ha infatti pubblicato l’equivalente della Bibbia, ovvero il Libro di Mormon, nel 1830. I mormoni quindi, a differenza degli altri credenti, non hanno nemmeno la scusante di credere in qualcosa la cui nascita risale agli albori della storia, poiché i fatti che portarono Joseph Smith a scrivere i suoi vaneggiamenti sono ben documentati in epoca recente. D’altro canto bisogna anche tenere conto che, stando al credo di Smith, il mondo sarebbe stato creato seimila anni fa…

Ma cerchiamo di rientrare in carreggiata.

Quello dei fratelli Lafferty è un crimine di natura quasi rituale. Per farla breve, hanno ucciso la cognata (sposa di uno dei fratelli minori) e la nipote neonata perché così era stato indicato loro in una rivelazione. Già, perché mi sono dimenticato di dirti che il mormonismo si basa su queste fantomatiche rivelazioni che possono colpire gli adepti da un momento all’altro. Sembra una cazzata, lo so (ma perché, oggettivamente, lo è). Partendo da questo fatto di cronaca Krakauer, come dicevo, spiega tutta la storia del mormonismo, dalla nascita ai giorni nostri, passando per le relative problematiche che si abbattono su qualsiasi religione venga presa sul serio (in pratica quando i credenti di turno diventano fondamentalisti).

Qui mi fermo di nuovo perché, sebbene io sia notoriamente ateo e questo lo sai, devo comunque spiegarti come la penso sul fondamentalismo religioso (spiegazione non adatta ai credenti standard poiché difficilmente verrà accettata).
Il fondamentalismo religioso, che noi siamo abituati a considerare ovviamente con un’accezione negativa, non è null’altro che il modo coerente e corretto di seguire un culto religioso. In pratica il fondamentalista si attiene per filo e per segno a ciò che il libro di riferimento (il Libro di Mormon, la Bibbia, il Corano e via dicendo) gli ordina di fare. Questo poco si sposa con il credente medio, quello occidentale per capirci, che desidera, nella sua incoerenza e ipocrisia, tenere sempre il piede in due scarpe e non rinunciare a nulla. Prendiamo la nostra religione culturale di riferimento: il Cristianesimo. Il vero cristiano, per dirne solo qualcuna, non tromba se non per concepire (vade retro anticoncezionali) né lo fa prima del matrimonio, ha un’idea ben chiaro di chi sia superiore tra l’uomo e la donna, va a messa tutte le domeniche, non si tatua, e – così per non dimenticarcelo – rispetta rigorosamente tutti e dieci i comandamenti. Non vado avanti, ci siamo capiti anche senza parlare di aborto, pillole, omosessualità e ulteriori gadget. Il vero cristiano è un fondamentalista, con tutte le conseguenze che questo stile di vita comporta. Non è diverso da un fondamentalista mormone o islamico o di quello che crede nei Puffi. Tuttavia il cristiano medio crede anche nel culto della vita occidentale, che comporta la presenza di alcune caratteristiche (sia positive che negative), come l’uguaglianza di genere, il consumismo, i vari diritti, la scarsa propensione a condividere con il prossimo… A questo punto il credente cosa fa? Be’, decide che, insomma, si può fare un misto tra quello in cui crede e quello che gli fa comodo. Se fosse intelligente, rifiuterebbe la religione in toto, poiché scientificamente inammissibile, comprendendo come la sua esistenza sia dovuta storicamente solo al controllo delle masse. Ma che vuoi: l’abitudine, i riti sociali, i contrasti generazionali… è molto più semplice e meno faticoso seguire il gregge, un colpo al cerchio e uno alla botte.

Tornando ai mormoni, la religione originaria prevede, ad esempio, la poligamia. Ed è una poligamia bella tosta, dove la donna è convinta di dover sottostare al volere dell’uomo (se fosse paritaria comporterebbe anche la poliandria, non ci sono cazzi al riguardo, l’esclusiva poligamia implica sempre il concetto per cui la donna sia sottomessa all’uomo). Ma capiamoci meglio. Krakauer parla di ragazzine di tredici anni rapite e stuprate che, successivamente, si sposano con lo stupratore. Ragazzine cresciute in un mondo talmente malato per cui sono convinte che, se questo è accaduto, è il volere dell’uomo e di dio. Parla di uomini che sposano donne e poi “sposano” (leggi: pedofilia) le figlie che nascono dal matrimonio. Negli Usa la poligamia è reato, per cui i mormoni si isolano in città nel deserto dove sono “tollerati” dallo Stato. Non solo, lo Stato sovvenziona le donne madri single (perché solo una moglie viene correttamente “registrata” come tale, per non infrangere la legge) fornendo un finanziamento costante alla famiglia mormone. È un susseguirsi di assurdita che è il frutto e la conseguenza di quanto scrivevo sopra, ossia del mondo occidentale che, pur avendo ormai gli strumenti scientifici, sceglie di continuare a credere nell’esistenza del culto dei Barbapapà di turno.

Nel mormonismo fondamentalista, in particolare, qualsiasi legge di Dio (e quindi, ricordiamolo, anche qualsiasi “rivelazione”) è al di sopra della legge dell’uomo. Quindi se Dio dice che si deve uccidere un’infedele, il vero credente agirà di conseguenza. Ti ricorda qualcosa? Qui non si parla, per dire, di essere un tipo ordinato o essere un tipo molto ordinato. Qui si parla di essere un tipo che crede nelle fate o di essere un tipo che crede molto nelle fate. È la follia della follia. Tuttavia, per evolverci come specie, prima o poi dovremmo capire che non c’è un modo corretto in cui credere nelle fate e uno sbagliato. Se credi in una cazzata a metà, ci sarà sempre qualcuno che ci crederà per intero…

Chiariamoci, io non mi oppongo alla ricerca di sé o alla meditazione. Io mi oppongo alle dottrine e agli indottrinamenti. All’elefante rosa che esiste per me e per chi lo vede come me e che tu non vedi solo perché non hai “fede”. Sì, il cazzo. Io non lo vedo perché sono sano di mente, diciamolo. Altrimenti sarà sempre sufficiente un Joseph Smith qualunque per inventarsi un nuovo culto delle sette sfere di DragonBall. E chi non vede le sfere, be’, è perché non ha fede.
Mi fermo qui, tanto hai capito come la penso in generale sui culti religiosi, anche senza che stia a spiegarti che nel mormonismo i bianchi sono ok mentre i neri sono considerati animali (e non nell’accezione positiva per cui, correttamente, siamo tutti animali).

In nome del cielo è stata una bella immersione in qualcosa che non conoscevo bene. Krakauer è molto dettagliato anche per quanto riguarda la storia, non solo per la parte crime. Un libro che consiglio per avere un’idea di cosa sia realmente la religione, non solo il mormonismo. Se proprio dovessi fare una critica, il libro è addirittura troppo lungo e dettagliato, tanto che non sento il bisogno di informarmi oltre sull’argomento, sono state davvero 400 pagine fittissime (è scritto anche parecchio piccolo).

Esiste una serie TV, ovviamente romanzata, con lo stesso titolo e ispirata dai fatti raccontati da Krakauer. Al momento è su Disney+, la guarderò, anche se credo che in questo caso si parli più di intrattenimento che altro, e, come ti dicevo sopra, a questo punto mi va anche bene così.

Libri che ho letto di Jon Krakauer:
Nelle terre estreme (1996)
Aria sottile (1997)
In nome del cielo (2003)

“Di là dal fiume e tra gli alberi” di Ernest Hemingway

Ho letto sei libri di Hemingway e me ne è piaciuto solo uno… e sai già qual è (peraltro uno dei miei romanzi preferiti in assoluto). Io e Ernest abbiamo un rapporto molto complicato, fatto di speranze disattese, incomprensioni, tempismi sbagliati. In poche parole: non ci prendiamo. Non ci prendiamo così tanto che sto quasi pensando di mollare i suoi tre romanzi che ho ancora sulla mensola delle cose da leggere, vedremo.

Di là dal fiume e tra gli alberi (1950), poco più di 300 pagine, un mese di lettura.
Il tema è buono, decadente e deprimente e con tutte le carte in regola per piacermi. Un vecchio colonnello (che poi è una delle solite e ritrite rivisitazioni dello stesso Hemingway) trascorre un periodo di nostalgie e ricordi a Venezia, in compagnia di una giovane ventenne di cui è innamorato follemente, ricambiato. Parlano e si amano, lui le racconta della guerra, lei fantastica sul loro futuro insieme. Lei è ricca, molto ricca, e gli fa regali costosissimi, lui vorrebbe ricambiare in qualche modo ma è conscio della differenza di classe. Sono gli ultimi giorni per il colonnello, che intervalla l’amore con la caccia alle anatre, affaticato da un cuore stanco e malato che lo sta per tradire. Fine.

Il problema principale di questa storia è la totale assenza di coinvolgimento emotivo. I tanto decantati dialoghi scritti da Hemingway sono qualcosa di estremamente lontano dalla realtà. Asciutti in tutto sì, ma anche di verosimiglianza. Questo non aiuta per nulla. Non si può dire sia un romanzo pesante: le pagine, volendo, scorrono, il problema è che non vanno da nessuna parte, né con la storia, né con il cuore. Un romanzo che ha il fascino di una radiocronaca sportiva, fatta senza pathos, di uno sport che non ti interessa. Mi ha poi annoiato il personaggio del colonnello che, in fin dei conti, è proprio sempre lo stesso che Hemingway racconta in tutti i suoi libri. Non lo so, forse stanno invecchiando male questi romanzi, forse (più probabile) sto invecchiando male io.
Mi dispiace, in qualsiasi caso.

Libri che ho letto di Hemingway:
Fiesta – E il sole sorgera ancora (1927)
Addio alle armi (1929)
I quarantanove racconti (1938)
Di là dal fiume e tra gli alberi (1950)
Il vecchio e il mare (1952)
Vero all’alba (1954-56)

“Beetlejuice Beetlejuice” di Tim Burton

Beetlejuice – Spiritello porcello (1988) è stato uno dei film della mia infanzia. Lo metterei tranquillamente insieme a quei film generazionali come ET, Stand by me, I Goonies, I Ghostbusters e tanti altri (mi fermo perché uno tira l’altro). Il rischio del disastro, quindi, nell’andare a toccare storie così legate alle emozioni della giovinezza è davvero molto alto (basti pensare a quello che hanno fatto ai poveri acchiappafantasmi, appunto). Tim Burton, poi, è un regista che ultimamente non mi ha soddisfatto molto. Lasciando perdere quella schifezza netflixizzata di Wednesday, credo che l’ultimo suo film che mi sia piaciuto sia stato La sposa cadavere, se non, addirittura, Big Fish. Insomma Beetlejuice Beetlejuice si presentava come un vero rischio, una di quelle cose per cui avrei potuto uscire dal cinema incazzato e amareggiato. Non è successo. Non siamo di fronte a Edward mani di forbice, chiariamoci, ma non ho nemmeno rimpianto i soldi del biglietto.

Io la trama non te la racconto, in questo caso meno che mai. Siamo di nuovo a Winter River, c’è il plastico, ci sono Michael Keaton, Winona Ryder e i microcefali, e lo spiritello viene evocato in modo più o meno voluto, come da copione. A differenza del primo capitolo, poi, ci sono molte più sottotrame che si intrecciano tra loro (è un film meno intimo e più corale), rendendo tutto meno lineare e un pochino più articolato. Uno di queste sottotrame è quella totalmente inutile con Monica Bellucci, sì, e non dirò altro a riguardo. È un prodotto molto semplice, sebbene più complicato del suo predecessore (e questo ti dà un’idea di come ci accontentassimo di poco una volta).
Ovviamente, non è in alcun modo uno stand alone, se non hai visto il primo film o lo recuperi (consigliato) o ti dirigi verso altro. Il livello di citazionismo, ma anche il richiamo logico della trama, è tale per cui tu non possa vedere Beetlejuice Beetlejuice senza aver visto Beetlejuice – Spiritello porcello (ma che te lo dico a fare).

Fermo restando, quindi, che la funzione amarcord rimanga la vera spinta del film, sono presenti anche delle novità e dei personaggi davvero godibili. Uno su tutti quello di Willem Dafoe (che non sbaglia mai un colpo) che impersona un agente di polizia dell’aldilà con il background dell’attore di Hollywood morto sul set: in pratica si spara le “pose” dall’inizio alla fine del film, e ti fa morire dal ridere.
È invece incredibile come Michael Keaton, sotto tutto il cerone, non faccia quasi notare gli anni trascorsi. Ricordiamoci che la sua carriera è scoppiata proprio grazie a questa interpretazione.
Il finale è forse un po’ affrettato, ma questo non è molto diverso da quanto si era visto in precedenza. Alla fine i Beetljuice li guardi più per l’atmosfera che per le trame di per sé.

Tutto qui, quindi. Non un capolavoro, ma nemmeno una delusione, e questo vale già molto. Ho sentito qualcuno sostenere che questo secondo episodio fosse meglio del primo… ecco, non mi spiengerei mai a tanto, anche solo per l’originalità dell’idea che qui, per forza di cose, non può avere lo stesso peso.

“Meridiano di sangue” di Cormac McCarthy

Meridiano di sangue è considerato da molti il miglior romanzo di Cormac McCarthy, spesso considerato anche come Grande Romanzo Americano. È il terzo romanzo di McCarthy che leggo e io, per ora, ho preferito gli altri due (che puoi trovare linkati a fine post). È chiaro, siamo sempre nell’ordine dei capolavori, non fraintendiamoci. Mi trovo in difficoltà, perché ho fatto davvero fatica a terminare le 300 pagine di questo libro, sebbene la sua grandezza non sia messa in dubbio. Andiamo per punti.

La trama.
1850, la storia segue le vicende di un giovane quattordicenne che abbandona la propria casa e si unisce a un gruppo di sbandati/giustizieri/portatori di legge in perenne movimento tra Stati Uniti e Messico. Uccidono, stuprano, rapinano e scalpano. In lotta con i nativi – ma non solo – si lasciano alle spalle una scia di sangue e morte. A guidarli, il giudice Holden, obeso e carismatico, che ricorda molto il Kurtz di Marlon Brando.

Ripeto, Meridiano di sangue è scritto in modo magistrale, come solo McCarthy può fare. Ogni pagina è poesia allo stato puro e ti fa immergere totalmente in un contesto di violenza e disperazione. L’obiettivo è quello di mostrare cosa sia stata realmente l’epoca dello scontro tra Indiani e cowboy, e ci riesce. Non ci sono Clint Eastwood qui, solo persone senza cuore e assassini. Sia da una parte (per scelta) che dall’altra (senza scelta). Bambini appesi per le mandibole, vecchi bruciati vivi, ragazze violentate e uccise. La vita non ha nessun valore, una parola sbagliata e sei morto. In assenza di un controllo, l’Uomo si rivela per quello che è: l’animale più brutale e crudele del pianeta. Non a caso questo è stato definito anche come uno dei romanzi più violenti mai scritti.

Io non sono facilmente impressionabile e, infatti, tutta questa violenza non mi ha colpito molto, dal punto di vista psicologico. Forse chi ancora crede che il farwest fosse simile a un film di Sergio Leone dovrebbe leggere questo romanzo, ma io ho trovato esattamente ciò che mi aspettavo: la realtà. Il mondo era già un brutto posto a quei tempi, ben prima del black friday.

Quindi, quanto ti dico che questo è un romanzo pesante non mi riferisco all’impatto emotivo (quello dipende da te, ovviamente), quanto alla sua mancanza di saper coinvolgere il lettore. La trama che hai letto sopra rappresenta esattamente tutto quello che accade nei 23 capitoli, senza grosse sorprese. A dirla tutta, potresti leggere questo libro a capitoli alterni e riuscire comunque a seguirne il filo conduttore. Tradotto: non ti verrà mai voglia di prendere in mano Meridiano di sangue per vedere come procede la storia perché, semplicemente, non procede. Questo romanzo è un bellissimo affresco, un dipinto dettagliato dalle atmosfere perfettamente descritte, ma non è una “storia” nel senso narrativo del termine.

Te lo consiglio? Sì, se ti piace McCarthy non ti deluderà. Se, però, non hai mai letto nulla di suo non iniziare da qui!

Libri che ho letto di Cormac McCarthy:
Meridiano di sangue (1985)
Non è un paese per vecchi (2005)
La strada (2006)

“L’inverno del nostro scontento” di John Steinbeck

L’inverno del nostro scontento è il decimo libro di Steinbeck che leggo e tra tutti è il più recente, anche perché è il suo penultimo romanzo. Ti ricordo che Steinbeck è uno dei miei scrittori preferiti e che Furore e La valle dell’Eden sono tra i romanzi più belli che abbia mai letto, sicuramente nella mia top ten assoluta.

Purtroppo questo romanzo, invece, non mi ha entusiasmato. Il suo tono in alcuni tratti è per metà surreale, in altri è semplicemente un po’ piatto. Pare quasi che la storia sia un lavoro preparatorio per qualcosa di più grosso, un tomone, per capirci. Peccato, perché la storia, il tema sociale alla Steinbeck, c’è. Mi rendo conto di essere una voce fuori dal coro nel dire questo, ma è quello che penso.

La trama parla di un uomo che proviene da una famiglia un tempo facoltosa, ma ormai andata in declino. Costretto a lavorare come commesso nel negozio di un immigrato siciliano, cerca costantemente il riscatto sociale, stimolato (pungolato) dal contesto in cui vive che lo obbliga moralmente a ricercare gli antichi fasti del suo nome. [Spoiler: lo troverà questo riscatto, ma a un caro prezzo emotivo ed interiore.]

Non mi ha aiutato l’incomprensibile scelta di scrivere alcuni capitoli in prima persona (dal punto di vista del protagonista) e altri (pochi) in terza. Questa tecnica narrativa mi ha tenuto lontano, distante, impedendomi qualsiasi coinvolgimento emotivo. Forse anche la traduzione dell’edizione, un po’ datata, può avere contribuito.

Libri di John Steinbeck che ho letto:
I pascoli del cielo (1932)
Pian della Tortilla (1935)
La battaglia (1936)
Uomini e topi (1937)
Furore (1939)
La luna è tramontata (1942)
La perla (1947)
La valle dell’Eden (1952)
Quel fantastico giovedì (1954)
L’inverno del nostro scontento (1961)

“Alien Romulus” di Fede Álvarez

Questo sarà un post cattivo, incazzato e stanco (cit. Highway Gunny), te lo dico subito, così lo sai. Ieri sera sono andato a vedere Alien Romulus di Fede Álvarez con grandi aspettative, considerate le recensioni positive, e sono rimasto profondamente deluso. Peraltro, cena (nel poco-più-che-fast-food vicino al cinema) e film totale 40 euro, una cifra esorbitante. Dimmi tu se devo pagare un film 10 euro e una birra 7, siamo alla follia…

Partiamo dalle cose positive (non so perché parlo al plurale che ce n’è una sola), cioè la trama. Diciamolo, tutta la saga di Alien non si è mai distinta per l’intreccio, non ha mai puntato su questo e non è quasi mai stato un problema, perché i film erano, in genere, sostenuti da altri fattori. Romulus in questo non fa differenza. C’è una storia accettabile e dignitosa che non ha nulla di più e nulla di meno di quelle dei suoi predecessori.

Sunto breve breve eh, che se lo vuoi intero su Wiki c’è tutto.
La protagonista è Rain, una ragazza orfana e contrattualmente schiavizzata da una compagnia mineraria – su un pianeta lontano-lontano – che vive con un androide nero e ritardato (e con questo posso salutare definitivamente il politically correct) che rappresenta la sua unica famiglia. I co-protagonisti sono gli amici altrettanto schiavizzati di Rain, che scoprono una nave enorme e abbandonata della Weyland Corp in orbita attorno al pianeta che sta per essere distrutta da un anello di detriti (come possano scoprirlo solo loro e nessun altro dei “poteri forti” rimane un mistero). Sulla nave sono presenti delle capsule di stasi criogeniche, indispensabili al gruppo per affrontare la fuga, lunga anni luce, sotto forma di bastoncini Findus congelati. La chiave per la riuscita del furto e della fuga è proprio Andy, l’androide ritardato, perché può accedere ai sistemi della Weyland. Partono all’avventura e, ovviamente, la nave è piena di facehugger (i famosi ingravidatori orali). Mi fermo.

Questo film doveva strizzare l’occhio alle nuove generazioni, e probabilmente lo fa, ma sceglie quelle brutte, quelle dei trapper, dei maranza e simili, non certo le nuove promesse per il futuro. Ne avevo giusto dietro una decina in sala (di simil-maranza), che hanno fatto un casino bestia, totalmente disinteressati ai pochi momenti di costruzione della trama e parzialmente attenti solo alle scene di azione.
Io ricordo quei film “spaziali” del passato dove l’equipaggio era composto da membri che avevano competenze specifiche definite, come razionalmente dovrebbe essere. Il medico, il militare, il pilota, il tecnico riparatore e via dicendo. Qui no, qui è il tripudio di quelli che non sanno fare un cazzo ma riescono a fare tutto. La festa dei non-studiati. Un po’ come quelli che oggi, sui social, ti spiegano la politica internazionale e la scienza senza aver capito come funziona l’italiano. Ecco, l’equipaggio è questo, a partire da quello che sa usare un’arma multifunzionale perché gioca con i videogiochi. Finiamola: io ho preso tutte le patenti oro di Gran Turismo ma prova a mettermi su una Ferrari che ti faccio vedere come muoio alla prima curva.
Ecco come Alien Romulus strizza l’occhio alle generazioni sbagliate del futuro, ignorando quelle giuste e relegandole ai margini.

I membri dell’equipaggio non sono più divisi per competenza ma per distinzione sociale in stile Netflix. Un sistema che si accartoccia su sé stesso. C’è l’androide nero e ritardato che viene tutelato per tutto il tempo, nonostante sia insito nel suo programma originario di servire la compagnia Weyland, che vorrebbe ibridare gli alieni con l’uomo. Eppure l’unico che vorrebbe vedere il sintetico morto (perché un sintetico gli ha ucciso la madre, mica così, gratis) viene chiaramente malvisto, quasi fosse un nemico della minoranza di turno. Eh, ma non si può certo volere morto un nero ritardato passandola liscia, no? Che poi io mi chiedo, un robot che sarà sempre al servizio di qualcuno – sia essa la compagnia o la stessa Rain – nero? Ma davvero? Forse è perché l’anno costruito i cattivi, che non sono abbastanza furbi da pensare ai problemi relativi alle disuguaglianze. D’altra parte sono troppo impegnati a conquistare l’Universo.

In ogni caso, il film sarebbe finito subito se non fosse che, fortunatamente, gli xenomorfi devono aver firmato qualche contratto con una casa di dentifrici che li costringe a digrignare i denti per dieci minuti prima di ogni attacco, dando così il tempo ai protagonisti di difendersi ogni volta. Che poi, io ricordo quanto ci volesse, nei primi Alien, a far fuori uno di questi cosi dall’alito fetente: tipo mezzo film. Qui no, qui con un fucile in due minuti uccidi dieci mostri. Sarà che bisogna essere bravi con i videogiochi e Sigourney Weaver evidentemente non lo era. O sarà che oggi si ha fretta di vedere le cose accadere, il sangue schizzare, mica si può star lì a costruire la tensione, sai che noia.

Insomma, citazionismo a parte (sempre apprezzato in mood nostalgia amarcord) questo Alien Romulus si piazza appena sopra ai due contro i Predator, che facevano, come noto, proprio schifo.