Come sai, non sono un lettore abituale di fumetti, li leggo, sì, ma senza diventare fanatico sui nomi dei disegnatori e degli sceneggiatori. Se mi appassiona la storia, bene, altrimenti è difficile che mi fermi a valutare la qualità del disegno o simile. Questo potrebbe attirare le ire di un vero appassionato ma tant’è, ed è anche il motivo per il quale i miei post sui fumetti sono abbastanza brevi, non faccio lunghe analisi…
Avevo mollato anche Dylan Dog dopo il numero 400 ma l’ottima direzione artistica di Barbara Baraldi mi ha fatto, in quel caso, ritornare sui miei passi. A tal proposito, se anche tu avessi mollato Dylan dagli un’altra possibilità: da quando c’è la Baraldi la situazione è nettamente migliorata.
Veniamo a Hellblazer – Abitudini pericolose. Ho recuperato per caso questa edizione che fa parte della raccolta Dark Side de La Gazzetta dello Sport. Per fortuna è anche parecchio malridotta, così ho potuto leggerla senza paturnie per il timore di rovinarla con pieghette o simile (sì, in questo sono come il collezionista medio: psicopatico).
Il protagonista è John Constantine, che forse conoscerai per il film con Keanu Reeves, personaggio creato da Alan Moore nel 1985 – prima apparizione su Swamp Thing – e poi protagonista della serie a fumetti di 300 numeri pubblicata tra il 1988 e il 2013. Constantine non ha superpoteri, è una sorta di demonologo, occultista e truffatore dal brutto carattere esperto nell’utilizzo della magia bianca. Abitudini pericolose, a quanto ho capito, raccoglie i numeri compresi tra il 50 e il 60, quando Constantine scopre di avere un tumore terminale ai polmoni causato della sua passione per il tabacco. In questo arco narrativo, sostanzialmente, Constantine prova tutti gli stratagemmi per uscire da questa brutta situazione sfruttando tutti i suoi contatti, poteri, e piangendosi addosso per i rimpianti causati da una vita di stronzaggine. Un pacco…
Ce la farà? I numeri, come detto, sono 300, quindi fai tu.
Sì, non mi è piaciuto granché. Da quello che si intuisce (entrando così, a mezza storia) la parte divertente è stata quella precedente e, si spera, lo sarà anche quella successiva. Questo viaggio carcinomatico nei rimpianti di un personaggio che non conosco (e del quale, quindi, non ho vissuto gli errori) è risultato piuttosto noioso. Forse, più che altro, si tratta di un errore nella scelta della sequenza narrativa da pubblicare, perché è difficile parlare di tumore ed empatizzare con i rimorsi di situazioni che non hai mai avuto modo di vedere.
Peccato, non ho gradito nemmeno molto la colorazione, fatta di colori pieni negli sfondi che mi hanno dato un’impressione di velocità ed economia produttiva.
Di queso libretto, online, si sente dire qualsiasi cosa. I giudizi passano da “mera operazione commerciale” a “capolavoro”. Sicuramente quella de L’uomo in nero è stata una pubblicazione coraggiosa, specialmente in Italia dove siamo abituati a pagare poco molti fumetti e pare che, in qualche modo, il valore di un’opera dipenda da quanto ci sia “scritto dentro”. Come se disegnare fosse gratis, insomma.
L’uomo in nero si legge in pochi minuti – 96 pagine – ma i disegni di Glenn Chadbourne potrebbero essere osservati per ore. Non è un romanzo. Non è una graphic novel. Non c’è una vera e propria trama. È una trasposizione visiva di una poesia scritta da Stephen King in giovinezza, il primo documento che riveli le origini (creative) di “Colui Che Cammina Dietro I Filari”, Walter O’Dim, Randall Flagg, Richard Fannin… il Male, insomma. Chadbourne ha rappresentato molto bene la desolazione dei paesaggi attraversati da questa figura, ormai mitologica, riuscendo a farti intuire come la sua personalità si sia formata, in un cammino di solitudine e disperazione.
Mi ha riportato indietro. A La Torre Nera, a L’ombra dello scorpione, a tutta quella contestualizzazione sociale di periferia dell’America dei tempi che furono – quelli d’oro del Re, in particolare – sia letterari che cinematografici. È come se fosse un percorso emozionale. È una cosa da appassionati? Sicuramente sì. Gli altri dovrebbero starne alla larga? Sicuramente sì. Te lo consiglio? Sicuramente sì.
Ho affrontato questo volume de I Classici del fumetto di Repubblica da ignorante totale, senza alcuna conoscenza pregressa su Hugo Pratt o sulle sue opere. Certo, conoscevo il personaggio di Corto Maltese, come icona e come immagine, ma non avevo mai letto nessuna sua avventura. Il volume contiene due storie: Una ballata del mare salato – in assoluto la più nota di Corto Maltese – e la breve Favola di Venezia.
Non sto qui a raccontarti le trame per filo e per segno, trattandosi di fumetti si leggono molto velocemente e ti rovinerei solo il divertimento. Ti dico solo che la prima storia parla di intrighi pirateschi e militari su un’isola misteriosa e la seconda ha un cartattere molto più onirico e racconta di una caccia al tesoro ambientata a Venezia.
Cosa penso? Penso che non leggerò altre storie di Corto Maltese, non mi ha catturato. È spesso poco realistico (i personaggi cercano di uccidersi in una pagina e si dichiarano amici nella successiva), per nulla introspettivo, troppo verboso e, in generale, desideroso di spalmare erudizione (il fumetto in generale, non il personaggio). Mi sono fermato parecchie volte per la noia, Favola di Venezia è stata poi del tutto intollerabile, un po’ perché io non sopporto i racconti onirici e un po’ per le caratteristiche che ho elencato sopra.
Eppure c’è indubbiamente qualcosa in Corto Maltese. Qualcosa che, appunto, l’ha reso un’icona, un simbolo. Questa sua mancanza di personalità, di profondità, lascia spazio a momenti di assoluta poesia. Singole immagini che, estrapolate dal contesto, diventano eterne e adattabili a qualsiasi situazione. Si potrebbe leggere una tavola a caso e trovarci qualcosa di grandioso, anche senza sapere nulla della storia dalla quale è tratta. È come se, ogni tanto, degli haiku incontrassero dei piccoli quadri. Una specie di magia.
Sarò abbastanza ermetico in questo post. Come ti ho più volte detto, ultimamente, ho poca voglia di leggere e altrattanta poca di scrivere.
Sleeping Beauties è la graphic novel tratta dall’omonimo romanzo scritto a quattro mani da Stephen King e dal figlio Owen. Per quanto riguarda i contenuti, che rispetto al romanzo rimangono invariati, ti rimando al mio post QUI, poiché anche le mie idee rimangono invariate, pur cambiando il “mezzo” di comunicazione.
La qualità del pacchetto è ottima, senza dubbio. Carta di pregio, colori vividi, copertina rigida spessa che conferisce valore al volume. Insomma, non ci si può certo lamentare. Lo stesso si può tranquillamente dire per la trasposizione, riuscita alla perfezione. Il fumetto comunica esattamente le stesse cose che comunicava il romanzo che, anzi, risultava molto prolisso. Se dovessi dare un voto – cosa che non faccio mai perché trovo insopportabile – per la capacità di trasportare la storia da romanzo a fumetto, darei un nove, senza esitare.
La tipologia del disegno non è la mia preferita, ma ora va di moda. Taglio molto semplice, minimalista, pochi dettagli e poco realismo. Io preferisco lo stile grafico più cupo utilizzato ne L’ombra dello scorpione o ne La Torre Nera, ma è questione di gusti.
Quindi, mi è piaciuto questo Sleeping Beauties? No, esattamente nello stesso modo in cui non mi era piaciuto il romanzo. Ma è un giudizio basato sui contenuti, non sul fumetto di per sé che, ripeto, non poteva essere fatto meglio. Purtroppo King scivola in una visione netflixiana della questione dell’uguaglianza di genere, semplificando tutto il semplificabile e creando un prodotto che è probabilmente (giustamente?) adeguato per i subdotati che si annichiliscono di fronte alle serie tv. La domanda che mi lascia è, però, questa: quanta spazzatura narrativa dovrò ancora ingoiare prima che l’homo calcisticus venga educato tramite un linguaggio base a lui comprensibile?
La graphic novel Stria è uscita per la prima volta in edicola nel 2011 come quinto numero della serie “Romanzi a Fumetti” di Sergio Bonelli Editore. All’epoca, sebbene mi avesse attratto, non avevo comprato l’albo poiché – da potenziale psicopatico quale sono – avevo deciso che una serie o la si prende dal numero uno o non è possibile “inserirsi” più tardi (un ragionamento che non fa una piega peraltro, direi, considerato che i singoli albi avevano storie autoconclusive…). Inoltre, in quegli anni, ero ancora un fedelissimo di Dylan Dog e questo provocava – tra uscite regolari, speciali, maxi, medi, curvi, obliqui, ecc. – un esborso mensile non indifferente (ora ho abbandonato Dyd, dopo decenni, ma questa è una storia triste e lacrimevole che ti racconto un’altra volta).
Nel 2022 Bonelli ripubblica Stria in edizione di prestigio, in un grande formato cartonato. Moglie (un’entita che lasciamo nell’ombra) me la regala, con tanto di dedica dell’autore, Luigi (Gigi) Simeoni. È così che mi accorgo, tra le altre cose, che Simeoni è di Brescia… quindi calpestiamo lo stesso suolo! Sono pessimo quando si tratta di autori di fumetti, perché io apprezzo le storie e i disegni ma non ricordo mai i nomi, è un dato di fatto. Pare non abbia una gran memoria nell’associare le opere ai loro creatori, ma questo mi succede solo per il mondo dei fumetti (una cosa che farebbe arrabbiare qualsiasi nerd che si rispetti).
Mi piace molto, in realtà, che l’autore si occupi – come in questo caso – dell’opera al 100%, dalla storia al disegno. Un po’ come faceva Kubrick per i suoi film, per capirci. Apprezzo la funzione di divinità creatrice, che tutto può e tutto decide. Non sono mai stato uno da gioco di squadra, a pensarci bene, questo qualcosa vorrà pur dire.
La storia di Stria è ambientata tra le montagne, a Marmentino (Val Trompia). Credo la si potrebbe definire un folk horror, genere che peraltro, al momento, funziona tantissimo. Nelle 300 pagine viene indagato e, infine, svelato il mistero che riguarda l’estate di tre adolescenti. Due di loro hanno totalmente rimosso i ricordi di quel periodo, tanto da non ricordare nemmeno di essere stati amici. Del terzo, invece, non si sa più nulla… qui mi fermerei.
Il formato di Stria è quello classico del bonellide, con impaginazione precisa e ordinata. A comandare sono la storia, molto coinvolgente, e i disegni, puliti come piacciono a me. Un po’ come accadeva nel vecchio Dylan Dog, l’orrore è utilizzato come mezzo per indagare altre tematiche e non è mai fine a sé stesso. Non ti trovi, quindi, di fronte a un esperimento di psichedelia autompiaciuta dell’autore (ogni riferimento…), ma a un progetto vero e con un proprio significato, dove l’orrore e la realtà si mescolano in modo consapevole e riuscito. Quando chiudi il volume sei soddisfatto, hai avuto tutto quello che desideravi dalla storia, tutto quello che ti aspettavi dalla copertina. C’è la stria (strega), certo, ma c’è anche il buio del Male che alberga nell’Uomo. Per farla breve: il cerchio si chiude e si chiude perfettamente.
Sempre per i “Romanzi a Fumetti” nel 2007 era uscita un’altra opera interamente di Simeoni, Gli occhi e il buio. Nel 2019 è stata ripubblicata in edizione di prestigio… vedrò di recuperarla.
Quale miglior periodo dell’anno per parlare del Male? Adoro il Natale…
Detto questo, ho letto L’ombra dello scorpione (romanzo) non meno di quindici anni fa, non ricordo esattamente in che periodo della mia vita. Ho visto anche la serie tv (rigorosamente quella anni ’90, non l’attuale), lunga “ben” sei ore (all’epoca – beata innocenza – una durata simile pareva un’infinità). Insomma, sul fumetto partivo preparato.
Due note, però, sull’Opera originale del Maestro. L’ombra dello scorpione è, a mio parere, uno dei suoi romanzi più riusciti, questo è indubbio. Da sempre, tra lettori e fan del Re, si affrontano le due fazioni: quella che ritiene che sia il miglior lavoro di King e quella che, invece, gli preferisce IT. Se dovessi per forza schierarmi (e non si capisce perché, mica è un tempo sul giro, calcolabile matematicamente) credo lo farei con la seconda. IT mi ha sempre mosso qualcosa dentro, forse per tutta la questione riguardante l’adolescenza, della quale L’ombra dello scorpione è privo. Quest’ultimo ha, però, tutte le caratteristiche necessarie (il patriottismo, la “nascita di una nazione”, la ricostruzione, la protezione dei valori tipici) per essere candidato come “Il Grande Romanzo Americano”. Certo, c’è chi storcerà il naso nel vedere il nome di King insieme a quelli di Faulkner o Steinbeck, ma ricordiamoci che King è ancora vivo. Ne riparleremo a puzza sopraggiunta. È così che si fa, dalle nostre parti.
Un po’ di storia editoriale. Inizialmente il fumetto esce per la Marvel in 31 albi tra il 2008 e il 2012. Direttore artistico, ovviamente, Lui. Sceneggiatura di Roberto Aguirre-Sacasa, disegni di Mike Perkins e colori di Laura Martin. Bompiani raccoglie gli albi, una prima volta, in sei volumi tra il 2010 e il 2016. Li raccoglie, nuovamente, in un’edizione in due supertomi da 450 pagine l’uno – quella che ho letto – nel 2021. Packaging inappuntabile, bisogna dirlo: carta pregiata e rilegatura a prova di spaginamento (io, comunque, sono malato e non apro mai il volume a più di 40°). Uscirà, magari tra qualche anno, un Omnibus da 18 kg con le 900 pagine riunite per lettori dai bicipiti d’acciaio? Per ora non si sa.
A differenza dell’adattamento de La torre nera, che si ispirava ai romanzi ma vagava random per strade non prestabilite, L’ombra dello scorpione segue la storia per filo e per segno, tanto da crearti una vera e propria sovrapposizione cerebrale tra le immagini e lo scritto (questo significa che, a breve, non distinguerò quello che ho immaginato leggendo il romanzo da quello che ho visto nei disegni di Perkins). E ciò mi piace molto, lo devo ammettere, perché in generale mal sopporto le libere interpretazioni (tradotto: se vuoi fare qualcosa di tuo fallo, non sfruttare l’opera e l’ingegno di un altro). Lo stile è quello del fumetto americano contemporaneo, che prende tutto dal cinema e lo riproduce su pagina. Primi piani, dettagli, interruzioni, e via dicendo. De gustibus, in realtà non mi è ancora chiaro se questa cosa mi piaccia o meno, ma qui funziona davvero molto bene perché la scrittura di King è notoriamente parecchio “filmica” (l’importante, in un discorso più ampio, è che non diventi il solo e unico modo di fare fumetto).
Poca trama, perché se sei qui è probabile tu sappia già di cosa stiamo parlando.
Un virus – Captain Trips – sfugge a un laboratorio (ehm…) e uccide il 99% della popolazione (e l’1% sopravvissuto viene, per farla breve, messo ulteriormente alla prova da Darwin). Tra i superstiti nasce una sorta di spiritualità, che si mostra durante il sonno. Qualcuno sogna Mamma Abigail, una tenera ultracentenaria che vive in una fattoria, e qualcun altro Randall Flagg (L’uomo Nero, l’eterno nemico). I due schieramenti si organizzano, la guerra è prossima.
Randall Flagg
Che poi guerra non è, diciamolo. È l’eterna ruota del Ka, che gira, contrapponendo Bene e Male, ragno e tartaruga. È l’Universo che si morde la lingua all’infinito. Non a caso, la ricostruzione della società è sempre, in un certo modo, l’inizio della fine. L’Uomo che, nel Bene, si unisce ai suoi simili, ma che porta in sé il seme della propria insuperabile imperfezione. Il seme del Male, appunto, l’autodistruzione.
Se non hai letto il romanzo, dovresti leggerlo – è chiaro! – ma questo è uno di quei rari casi in cui la trasposizione (cinematografica o fumettistica che sia) è riuscita davvero bene. Non si può dire, peraltro, che ci siano stati tagli rilevanti, c’è praticamente tutto. Se sei pigro, se non hai voglia di prenderti la briga di immaginare perché hai il cervello moscio, la graphic novel è la soluzione che fa per te.
Se il romanzo l’hai letto, invece, credimi, non rimarrai deluso. Si tratta davvero di un bel ripasso, di quelli buoni, che funzionano e che non portano via (rubano) niente dalla sacca dei ricordi, anzi.
Dadoveiniziaredadoveiniziaredadoveiniziare. Non lo so. Ok, facciamo finta tu non ne sappia nulla. Ci proviamo. Non ci riusciremo. Creepshow (1982) è un film a episodi diretto da George A. Romero e scritto da Stephen King. Dal film, come stratosferica operazione di marketing, viene tratto un fumetto omonimo, disegnato da Bernie Wrightson. Il richiamo alle riviste a fumetti horror della EC Comics e della Warren Publishing (1964) è fortissimo, tanto che il “presentatore” delle storie sarà proprio Uncle Creepy, un personaggio chiave di quel periodo.
Se hai vissuto un po’ degli anni ottanta/novanta di Notte Horror su Italia 1, non puoi di certo esserti dimenticato lo Zio Tibia Picture Show, cioè la versione nostrana e pecoreccia di Uncle Creepy, che precedeva la visione delle pellicole (cose tipo Nightmare, Unico indizio la luna piena, Non aprite quel cancello…). Aspetta, ti rinfresco la memoria.
Zio Tibia Picture Show – Notte Horror (Italia 1)
Ecco, è questo lo splatteroso contesto in cui ci stiamo muovendo.
Parliamo della trama, sia del film che del fumetto (essendo essi legati come gemelli siamesi).
Sullo schermo è presente una cornice che nel fumetto manca, cioè quella di un ragazzino che legge di nascosto la rivista Creepshow (quella che hai tra le mani, ecco spiegato perché manchi la cornice).
La rivista contiene cinque storie (utilizzo i titoli e l’ordine dell’edizione Mondadori).
La festa del papà: un papà ritorna dal regno dei morti (nel film c’è un giovane Ed Harris). La morte solitaria di Jordy Verrill: un contadino ignorante viene “contagiato” da una meteora (interpretato nel film da Stephen King!). La cassa: horror classico, viene scoperta una cassa che contiene una famelica bestia. Di mare in peggio: la vendetta di un uomo geloso (grandioso Leslie Nielsen). Ti infestano: un ricco anziano soffre di un’ossessione per gli scarafaggi, ma sarà davvero un’ossessione?
Non resisto, ti mostro la mia collezione.
Creepshow in DVD, fumetto americano originale e edizione Mondadori
Horror puro al 100%, quello che si faceva una volta, con effetti speciali meccanici e storie di paura vera. Siamo lontani anni luce dalle mode odierne, dove c’è sempre il solito fantasma a infestare qualcosa (un muro, una casa, una vhs…). Questa è l’adolescenza del terrore, quella che ho sempre adorato.
Esistono, in realtà, anche due seguiti del film (non del fumetto): Creepshow 2, che vede ancora coinvolti King e Romero, e il pessimo Creepshow 3, mera operazione commerciale senza alcuna autorialità degna di nota. Io ho sempre preferito, a quest’ultimo, I delitti del gatto nero di John Harrison, dove la coppia Romero/King spacca ancora di brutto (e il cast è spettacolare: Julianne Moore, Steve Buscemi, Christian Slater e nientepopodimeno che Debbie Harry -> Blondie).
Dal mio livello di fanatismo avrai capito che non potevo farmi mancare la traduzione in italiano di Creepshow. Peraltro il fumetto originale lo tengo in una teca di vetro (protetto da raggi laser) e l’ho letto solo una volta per evitare di rovinarlo. Ora che ho il cartonato, invece, posso godermelo come si deve (è bello robusto, niente pieghe di lettura in copertina).
Darei qualsiasi cosa per tornare a quei tempi (anche se gli anni ottanta, causa età, io li ho vissuti nei novanta), purtroppo non posso. Ma il feticcio aiuta e Uncle Creepy anche.
(Alla quarta graphic novel, come ti avevo promesso, ho inaugurato una pagina dedicata ai fumetti.)
Non ho molto da aggiungere su questa seconda parte di Macerie prime, rispetto a quanto già detto per la prima parte. Devo solo confermare che Zerocalcare mi ha stupito e mi ha fatto ricredere: è davvero bravo.
Mentre il primo volume analizzava i problemi personali dell’autore, cioè quelli legati all’improvviso successo, nel secondo si passa a un piano più vicino alle persone comuni, ossia i problemi che affligono tutti nell’arco della vita. Il lavoro, il precariato, la convivenza, la maternità, il suicidio, ecc. Devo dire che questo consente di apprezzare ancora di più la profondità con cui Michele Rech (vero nome di Zerocalcare) affronta gli argomenti. È tutto molto divertente e ironico ma allo stesso tempo, in un qualche modo, triste. Ed è tutto molto condivisibile.
C’è una certa amarezza, una continua riflessione sulle cose della vita che vanno accettate per quello che sono e di quanto sia importante cercare di fare le scelte giuste, che non sono esattamente quelle che ci spinge a fare il nostro contesto, spesso sbagliato. Aleggia il consiglio a lasciare da parte l’egoismo e l’individualismo in favore di una visione più ampia.
Credo proprio che leggerò altro di Zerocalcare. Accontentati, sono molto stanco.
[Premessa: prometto che se arriverò a parlarti di un terzo fumetto aprirò una sezione dedicata ai fumetti, per ora rimaniamo ospiti nella parte del blog che si occupa di libri.]
L’eternauta è un fumetto Argentino del 1957, scritto da Héctor German Oesterheld e disegnato da Francisco Solano López. Insieme a Maus di Spiegelman, è uno di quei fumetti “impegnati” che trovi sempre citati ovunque, quando cerchi le migliori opere di tutti i tempi. Ciò è in parte dovuto anche alla triste vicenda del suo creatore che nel 1977 divenne uno dei desaparecidos, insieme a tutta la sua famiglia, durante la dittatura argentina di Jorge Rafael Videla.
La trama è molto semplice, la racconta il protagonista dopo essersi letteralmente materializzato di fronte al suo ascoltatore, un disegnatore di fumetti. È l’eternauta (lo chiamiamo così, poiché il suo nome cambia a seconda della nazione di edizione), colui che ha affrontato un’invasione aliena iniziata mentre stava giocando a carte con gli amici. Neve assassina, raggi sterminatori, creature e uomini-robot comandati a distanza dall’invasore: c’è di tutto.
Una cosa però è da dire. Pur essendo considerato un’opera di fantascienza L’eternauta è fondamentalmente un fumetto di guerra. Gli alieni potrebbero tranquillamente essere invasori venuti da una nazione ostile, nulla cambierebbe. Quello che racconta è la resistenza dell’uomo di fronte al dominio e alla schiavitù, il bisogno di proteggere la propria famiglia e di avere buoni amici a fianco.
L’edizione che ho letto l’ho recuperata a un mercatino, è quella dei Classici di Repubblica. Differisce in alcuni dettagli (sicuramente nel formato di presentazione, più orizzontale nell’originale) dalla versione argentina. Quello che è certo è che ha la consistenza di un libro: sono 460 pagine molto fitte, impegnative dal punto di vista della lettura. Talvolta ho trovato finamai ridondanti certi concetti ripetuti più volte, pochissimi i riquadri senza parti scritte.
Che dire, mi è piaciuto, non può che essere così.
Tuttavia non rientra tra i miei fumetti preferiti, credo sia dovuto anche all’ingenuità (positiva) di una scrittura di ormai 60 anni fa. Sono presenti alcuni “spiegoni” dei personaggi, deduzioni che diventano automaticamente realtà. Per chi è abituato al moderno “show, don’t tell” (mostra, non raccontare) questo potrebbe quindi rappresentare un ostacolo, una semplificazione eccessiva. E, come dicevo, talvolta c’è una ripetitività troppo invadente che rallenta parecchio il corso degli eventi.
Sto facendo le pulci ovviamente, rimane un fumetto da leggere. Non aspettarti, però, viaggi nel tempo o filosofie cosmologiche, non li troverai in questa prima avventura.
(Esistono poi cinque seguiti, disegnati sempre da Lopez, dal 1977 al 2006, di cui solo il primo su sceneggiatura di Oesterheld, ma non li ho ancora letti. Vedremo.)
Sì, lo so che non è un libro e che di solito qui scrivo di libri. So anche che questa pagina del blog si chiama “recensioni libri”. Vedila così: se mi capiteranno sottomano altri fumetti aprirò una pagina apposita. E poi questo Zerocalcare nelle sue opere scrive un sacco, cioè, è bello denso, quindi la lettura non è proprio quella classica veloce da fumetto.
Insomma, come spesso accade, ero al mercatino dell’usato e mi è capitato questo Macerie prime sotto il naso a 5 pleuri. Di Zerocalcare, alias Michele Rech, avevo letto ogni tanto solo le strisce online che girano sui social, facendomi effettivamente qualche risata. L’ho però sempre un po’ snobbato, perché piace a tutti e io sono un bastian contrario di default, e la cultura di massa la reggo generalmente poco. Tuttavia…
Tuttavia è stato divertente, mi ha piacevolmente stupito. In questo volume l’autore affronta i suoi problemi del dopo-notorietà, ossia quello che si potrebbe definire il lato oscuro del successo (e no, non è quello di sesso, alcool e droga: mica è Axl o Morrison..). Quindi il superlavoro, il non volersi allontanare dalle proprie radici, il rapporto con gli amici di sempre e quello con chi gli chiede costantemente comparse, prese di posizione, ecc. E devo dire che fa una bella impressione, perché affronta i problemi che avrebbe chiunque in modo ironico e trasparente, ma anche molto condivisibile se si ha una coscienza pulita, come pare essere la sua (che di coscienze, in forma coomics, ne ha qualche migliaio).
Ho poi scoperto che questo è il primo di due volumi (azz), adesso quindi mi toccherà recuperare anche il secondo, quando uscirà a maggio.
Insomma, nonostante il linguaggio in romanaccio, mi è piaciuto.