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“Top Gun: Maverick” di Joseph Kosinski

La scena di apertura di Top Gun: Maverick vede una portaerei in piena azione, con caccia che atterrano e decollano e, soprattutto, la voce di Kenny Loggins che canta Danger Zone.
Ho iniziato a sognare, subito, e non ho più smesso.

Top Gun: Maverick riesce dove hanno fallito tutti.
Dove hanno fallito gli Indiana Jones, i Rocky, i Ghostbusters, gli Star Wars (sì, per me anche Star Wars) e i Rambo vari con sequel perdibilissimi. Dove ha fallito anche Villeneuve con Blade Runner 2049 – un film indubbiamente stupendo – ma che non ti riporta indietro. E non vado nemmeno a citare le produzioni netflixiane di seconda categoria con risparmiabilissimi reboot e remake.
Top Gun: Maverick è la definitiva, riuscita, eccezionale, perfetta operazione nostalgia. È esattemente quello che desideri vedere.

Maverick ha scelto di non fare carriera, testa aerei segreti che superano i mach 10 e tira a campare, ricordando l’amico Goose. Viene richiamato ad addestrare la squadra dei migliori Top Gun al mondo per una missione apparentemente senza ritorno. C’è da andare a far saltare un deposito di uranio in territorio nemico. Tra i piloti anche Rooster, il figlio di Goose. Sotto l’ala protettiva di un morente ammiraglio Iceman, Maverick non è cambiato, è rimasto sé stesso. Stessa moto, stessa giacca di pelle, stessi Ray Ban.
E, incredibilmente, funziona.

Ero abbastanza terrorizzato. L’assenza di Tony Scott (che, ricordiamolo, si è lanciato da un ponte) al timone non mi dava molte speranze. Anche se, però… però Oblivion di Kosinski mi era piaciuto molto. Ma ero terrorizzato lo stesso, dai, siamo onesti, è inutile girarci intorno. Tom Cruise che a sessant’anni si mette a guidare i caccia e salva il mondo. L’ennesima Mission Impossible – divertente eh, non c’è dubbio – non poteva essere il nuovo Top Gun. Mi sbagliavo.

Top Gun: Maverick è la celebrazione di un Cinema che non esiste più. Quel Cinema nel quale sai esattamente dove andrà a parare ogni scena, ogni sequenza, ma che comunque ti emoziona. L’ottimismo degli anni Ottanta all’ennesima potenza. Il sogno che diventa realtà, lo schermo che è migliore della vita. La pausa dalla quotidiniatà, l’eroismo, l’amicizia virile. La centralità della trama e dei personaggi che non vengono “invasi” dai deliri del politacally correct a tutti i costi (sì, ok, c’è una donna tra i piloti ma c’è e basta, fa battute su chi abbia le palle o meno e il fatto che ci sia non diventa il centro gravitazionale della storia, cazzo).

Si era parlato del fatto che Cruise potesse avere un ruolo marginale rispetto a un nuovo protagonista. Grazie al cielo non è successo. Non sentivo proprio l’esigenza dell’Adonis Creed di turno. Non questa volta. Cruise è invecchiato, sì, e ogni tanto qualche battutina c’è. Ma, posso dirtelo senza mezzi termini, non è la scenetta trita e ritrita proposta in Arma Letale 4 e nemmeno la merda propinata, più recentemente, in Bad Boys for life. Cruise è cazzutissimo e non ce n’è per nessuno, è lui quello più in canna di tutti. È Maverick.

A tutto questo, aggiungi le scene girate davvero all’interno dei caccia: gli attori hanno recitato trasportati da piloti professionisti. Aggiungi che la dimenticabile canzone di Lady Gaga (mi spiace, ma con i Berlin non c’è confronto) è relegata in una microscena secondaria e finale. Aggiungi che hanno sostituito Kelly McGillis con Jennifer Connelly senza alcuna pietà (e senza falsi buonismi), perché lei, a differenza di Cruise, ha accumulato davvero 35 anni in più. Aggiungi che hanno ricostruito la voce di Val Kilmer, sottoposto a tracheotomia per il tumore che lo ha quasi ucciso (nel film e nella vita). Aggiungi una serie infinita di riproposizioni e omaggi al primo Top Gun (frasi, scene, tensioni tra i personaggi) che incredibilmente non pesano.

Aggiungi tutto questo e – fermo restando che non siamo di fronte al Il Padrino e sappiamo di che tipologia di Cinema stiamo parlando – avrai uno tra i migliori sequel mai realizzati.

“Creepshow” di Stephen King, George Romero e Bernie Wrightson

Dadoveiniziaredadoveiniziaredadoveiniziare. Non lo so. Ok, facciamo finta tu non ne sappia nulla. Ci proviamo. Non ci riusciremo.
Creepshow (1982) è un film a episodi diretto da George A. Romero e scritto da Stephen King. Dal film, come stratosferica operazione di marketing, viene tratto un fumetto omonimo, disegnato da Bernie Wrightson. Il richiamo alle riviste a fumetti horror della EC Comics e della Warren Publishing (1964) è fortissimo, tanto che il “presentatore” delle storie sarà proprio Uncle Creepy, un personaggio chiave di quel periodo.
Se hai vissuto un po’ degli anni ottanta/novanta di Notte Horror su Italia 1, non puoi di certo esserti dimenticato lo Zio Tibia Picture Show, cioè la versione nostrana e pecoreccia di Uncle Creepy, che precedeva la visione delle pellicole (cose tipo Nightmare, Unico indizio la luna piena, Non aprite quel cancello…). Aspetta, ti rinfresco la memoria.

Zio Tibia Picture Show - Notte Horror
Zio Tibia Picture Show – Notte Horror (Italia 1)

Ecco, è questo lo splatteroso contesto in cui ci stiamo muovendo.
Parliamo della trama, sia del film che del fumetto (essendo essi legati come gemelli siamesi).
Sullo schermo è presente una cornice che nel fumetto manca, cioè quella di un ragazzino che legge di nascosto la rivista Creepshow (quella che hai tra le mani, ecco spiegato perché manchi la cornice).

La rivista contiene cinque storie (utilizzo i titoli e l’ordine dell’edizione Mondadori).

La festa del papà: un papà ritorna dal regno dei morti (nel film c’è un giovane Ed Harris).
La morte solitaria di Jordy Verrill: un contadino ignorante viene “contagiato” da una meteora (interpretato nel film da Stephen King!).
La cassa: horror classico, viene scoperta una cassa che contiene una famelica bestia.
Di mare in peggio: la vendetta di un uomo geloso (grandioso Leslie Nielsen).
Ti infestano: un ricco anziano soffre di un’ossessione per gli scarafaggi, ma sarà davvero un’ossessione?

Non resisto, ti mostro la mia collezione.

Creepshow in DVD, fumetto americano originale e edizione Mondadori
Creepshow in DVD, fumetto americano originale e edizione Mondadori

Horror puro al 100%, quello che si faceva una volta, con effetti speciali meccanici e storie di paura vera. Siamo lontani anni luce dalle mode odierne, dove c’è sempre il solito fantasma a infestare qualcosa (un muro, una casa, una vhs…). Questa è l’adolescenza del terrore, quella che ho sempre adorato.
Esistono, in realtà, anche due seguiti del film (non del fumetto): Creepshow 2, che vede ancora coinvolti King e Romero, e il pessimo Creepshow 3, mera operazione commerciale senza alcuna autorialità degna di nota. Io ho sempre preferito, a quest’ultimo, I delitti del gatto nero di John Harrison, dove la coppia Romero/King spacca ancora di brutto (e il cast è spettacolare: Julianne Moore, Steve Buscemi, Christian Slater e nientepopodimeno che Debbie Harry -> Blondie).

Dal mio livello di fanatismo avrai capito che non potevo farmi mancare la traduzione in italiano di Creepshow. Peraltro il fumetto originale lo tengo in una teca di vetro (protetto da raggi laser) e l’ho letto solo una volta per evitare di rovinarlo. Ora che ho il cartonato, invece, posso godermelo come si deve (è bello robusto, niente pieghe di lettura in copertina).
Darei qualsiasi cosa per tornare a quei tempi (anche se gli anni ottanta, causa età, io li ho vissuti nei novanta), purtroppo non posso. Ma il feticcio aiuta e Uncle Creepy anche.

Uncle Creepy
Uncle Creepy

Ho letto quasi tutti i libri di Stephen King (me ne mancano 4), ma quelli di cui ti ho parlato sul blog sono questi:
Blaze (2007, come Richard Bachman)
Duma Key (2008)
Revival (2014)
Mr. Mercedes (2014)
Chi perde paga (2015)
Il bazar dei brutti sogni (2015)
Fine turno (2016)
La scatola dei bottoni di Gwendy (2017, con Richard Chizmar)
Sleeping Beauties (2017, con Owen King)
The Outsider (2018)
Elevation (2018)
L’istituto (2019)
Se scorre il sangue (2020)

“Il tunnel dell’orrore” di Dean Koontz

Per questo romanzo di Dean Koontz, terzo che leggo dopo Cuore nero e Il luogo delle ombre, è doverosa un’introduzione che definirei storiografica (nel senso che ti racconto la storia della sua creazione).
Ok? Partiamo.

Nel 1980 Koontz non era ancora quel mostro di vendite che è ora (si parla di qualcosa come 500 milioni di copie) e, anzi, era abbastanza sconosciuto al grande pubblico. Tirava quindi a campare accettando anche scritture a compenso. Una di queste è quella che gli offrono i produttori del nuovo film di Tobe Hooper (hai presente? Non aprite quella porta, Poltergeist… ecco, lui), che si sarebbe intitolato The Funhhouse. Desiderano, infatti, ricavare un romanzo dalla sceneggiatura originale di Larry Block. Koontz accetta e scrive, appunto, Il tunnel dell’orrore, peraltro utilizzando la sceneggiatura solo per l’ultimo quinto della storia, che lui ricrea e approfondisce sviluppando tutta una parte iniziale inesistente. Per ragioni di marketing  scrive sotto lo pseudonimo di Owen West (uno dei mille che utilizza) e il romanzo, che in origine sarebbe dovuto uscire contemporaneamente al film, viene pubblicato in anticipo e vende milioni di copie. Poi esce anche il film di Hooper e il libro smette di vendere all’improvviso. Io il film non l’ho visto, ma così a occhio non deve essere un granché…

Horror puro anni ’80, senza fronzoli, tutto intrattenimento e cervelli spappolati. Una gioia per le mie papille oculari.
Trama (poca, as usual).
1955. Ellen scappa di casa con un giostraio per sfuggire alla madre bigotta. L’uomo, tale Conrad, diventa violento, lei resta incinta e partorisce un freak simil-satanico. Disperata, lo uccide (a ragione, è una bestia immonda e malefica). Conrad le giura vendetta.
1980. Ellen si è sposata e ha avuto due figli. È anche diventata bigotta quanto la madre, e alcolizzata. Sua figlia Amy ha 17 anni (anche lei resta incinta, ma abortisce) e per una serie di eventi finisce nel luna park dove Conrad ha il suo tunnel dell’orrore… Non aggiungo altro, ma qui inizia il film (e gli squartamenti).

Koontz a me piace, non c’è niente da fare. Chiariamoci, non è Stephen King (per restare in tema parco divertimenti il suo Joyland è di gran lunga superiore), ma ha una scrittura semplice che fa letteralmente volare via il tempo. E poi questa atmosfera retrò da Venerdì con Zio Tibia mi ha riportato alle mie prime esperienze con le notti horror di Italia Uno. Un genere, l’horror, che ormai è pieno di fantasmi inquieti e presenze tormentate, ma che una volta era più semplice e più gustoso. Anche ne Il tunnel si ritrovano dei piacevoli stereotipi che hanno fatto epoca (chessò, Liz, l’amica puttanella di Amy, che non ha alcuna profondità psicologica ma solo profondità inguinale).

Bene, ci risentiremo quindi di certo con Phantoms e Intensity, dal momento che li ho già in libreria.

“Ready Player One” di Steven Spielberg

In un futuro, non troppo lontano, le persone passano tutto il loro tempo in Oasis, un mondo virtuale dove, grazie a guanti, tutina e visore, tutto è possibile (hai presente Second Life, ecco, al cubo). Il nostro eroe è un supercampioncino che, da grande ammiratore del deceduto creatore puro e innocente di Oasis, dovrà superare diverse prove per ottenere il dominio del mondo virtuale e non lasciarlo al cattivone di turno, perfido proprietario di un’azienda di malvagi. Nel frattempo stringerà dei profondi legami di amicizia e troverà l’amore.
Adesso devo anche dirti cosa penso?

Siamo sul pianeta Spielberg al 100%, un pianeta che non ho mai particolarmente apprezzato (con le dovute eccezioni, una su tutte: Indiana). Tutti gli spunti interessanti non vengono approfonditi per non togliere nulla al puro intrattenimento, da sempre unico vero obiettivo del regista. Se è questo che cerchi, in Ready Player One lo troverai. Se invece pensi ci possa essere una riflessione sulla società moderna, sui consumi, su dove si stia dirigendo la nostra “civiltà”, beh, allora è il caso tu vada a cercare da un’altra parte.

Fermo restando la perfezione grafica, gli effetti speciali, i robottoni e gli stupendi richiami agli anni 80 e a tutta la cultura nerd (per capirci: Robocop, Shining, Gears of War, Ritorno al futuro, Daitan, Atari, Doom, musica anni 80 in generale, Godzilla, ecc. ecc. ecc.), questo film è solo un grosso contenitore pieno di nostalgia e senza una bella storia da raccontare. Un po’ come nella serie Stranger Things, tutto è puntato sull’amarcord sperando che, tra una lacrima e l’altra, tu non ti accorga che non c’è nulla di interessante.

E, a proposito di lacrime, io sono sempre stato convinto che quando il protagonista di un film stia piangendo o ridendo tu debba sentirti almeno un pochino empatico perché si possa dire che l’impianto narrativo funzioni, che ti abbia tirato un po’ dentro. Invece ero lì a chiedermi: ma perché sta piangendo?

Insomma, a guardarlo questo film il tempo ti passa via, ma niente di fondamentale per la storia della fantascienza. L’ottimismo di Spielberg non lascia scampo, ne hai la prova certa quando il protagonista si innamora di un’avatar e scopre (a 1/4 di film, quindi non è spam) che la ragazza nel mondo reale è figa come in Oasis.

Un colossale Youporn per Dawson Leery, ma non per me.