“L’isola del tesoro” di Robert Louis Stevenson

Ultimamente non ho molta voglia di leggere, sono parecchio demotivato. So che succede e non mi preoccupo – sono ancora lontano dal lobotomizzarmi bramando come obiettivo di vita la scempions di turno – tuttavia è un dato di fatto che sia passato dal leggere un libro in tre giorni a più di un mese. Ho scelto L’isola del tesoro (1883) proprio per cercare di uscire da questa impasse, fallendo. Sulla carta c’era tutto: letteratura per ragazzi, avventura, grande successo, eppure… eppure.

Di Stevenson avevo letto solo Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde e ricordo mi fosse piaciuto. Certo, lì era presente un tema forte, eterno, il Bene contro il Male nella natura umana. In più mi era piaciuto moltissimo L’isola dei pirati di Crichton, quindi tutto faceva presagire a un’ottima commistione tra un autore apprezzato e un genere interessante.
Avrai già capito che tutto questo preambolo nasce da una delusione, non la tirerò per le lunghe.

La trama è nota (vorrei ben vedere!) e rivista in varie opere successive, in tutte le salse. Un giovane ragazzo, Jim, entra in possesso di una mappa, poi c’è il viaggio sulla nave in cerca dell’isola e del tesoro, l’ammutinamento, i combattimenti, ecc.
Devo dire che l’inzio del romanzo, con l’arrivo dell’enigmatico marinaio nella locanda di Jim, mi aveva conquistato. Il senso di mistero e la tensione erano palpabili e “moderni”, in qualche modo. Tuttavia, dopo il breve intermezzo del viaggio in nave fino all’isola, il romanzo vira verso un continuo botta e risposta tra ammutinati e “buoni”, diventando poco coinvolgente, ai miei occhi. Le battaglie e gli scontri con il moschetto non suscitano in me nessun interesse, c’è solo la voglia di vedere come vadano a finire per poter procedere con la trama e arrivare al punto successivo.

Lo so, lo so, che sto parlando con leggerezza di un grande classico. Mi rendo conto, tuttavia, che questo sia un mio limite, una preferenza personale. Stevenson mi piace nello stile di scrittura, lo trovo più godibile rispetto a Verne (per rimanere tra i giganti dell’epoca), del quale però apprezzo maggiormente le trame, più coinvolgenti.

Non lo so, mi aspettavo più mistero, una tensione quasi soprannaturale, che non ho trovato. È tutto alla luce del sole, tutto esplicitato. Ho avvertito poco la solitudine del mare, la solitudine dell’isola. In poche parole, sono rimasto fermo, non ho viaggiato. Mi dispiace.

Ma la verità, temo, è che io sia ormai troppo vecchio per apprezzare qualcosa che farà sicuramente brillare gli occhi a un ragazzino alle prime letture.

In tema pirati/mare ho sullo scaffale La trilogia del mare di Golding. Attenderò un po’ prima di affronatarlo. Credo che ora leggerò Le leggi della frontiera di Javier Cercas.

“In fondo alla notte” di Dean Koontz

In fondo alla notte viene pubblicato per la prima volta nel 1979, Koontz in quell’occasione utilizza uno dei suoi pseudonimi: Leigh Nichols. Il romanzo viene poi rivisto intorno al 1995 e, questa volta, esce con il nome di Koontz.

Alex, un investigatore in vacanza a Kyoto, incontra per caso una ragazza scomparsa anni prima. La ragazza, Lisa, era la figlia di un senatore, ex-cliente di Alex, che l’investigatore non era mai riuscito a ritrovare. Il problema è che Lisa è convinta di chiamarsi Joanna e ricorda un passato totalmente di diverso da quello che Alex conosce. Joanna/Lisa ha incubi ricorrenti, il protagonista degli incubi è un dottore che la tiene legata a un lettino e ha una mano meccanica…

Manipolazione della mente, distorsione del passato, ipnosi… in questo datato romanzo di Koontz compaiono molte delle caratteristiche che poi si rivedranno nei suoi libri successivi, perlomeno in molti di quelli che ho letto io. Un romanzo veloce e molto semplice – purtroppo nel senso negativo del termine – che non rimarrà tra i miei ricordi a lungo.

Descrizioni semplici – non sto abusando del termine, è quello che calza meglio – unite a soluzioni semplici. La nota ricetta di Koontz (thriller, un pizzico di horror e un po’ di romanticismo, dicono) non mi è mai risultata così indigesta. A tratti siamo vicini al romance, con tanto di adolescenziale attesa dei protagonisti che, per fare sesso, aspettano di dirsi “ti amo”.
E poi spiegoni, spiegoni ovunque. Nei dialoghi, nei sentimenti, nelle situazioni. Quasi che il lettore medio di Koontz possieda un QI sotto la norma.
Mi dispiace essere così negativo, ma questa sembra l’opera prima (ma Koontz scrive dal ’68) di un autore che, in Italia, non verrebbe nemmeno pubblicato.

È incredibile come, solo quattro anni dopo, Koontz abbia scritto un romanzo di gran lunga superiore: Phantoms!. È altrettanto incredibile, tuttavia, come Koontz venga spesso associato a King, le cui prime opere sono tutte eccezionali (anche le vere prime opere, quelle scritte prima di Carrie sotto lo pseudonimo di Bachman).

Non smetterò di leggere Koontz, perché ho già acquistato altri suoi libri (spero migliori). Tuttavia inizio a pensare sia un autore che abbia prodotto troppo. All’americana, per capirci.

Libri che ho letto di Dean Koontz:
In fondo alla notte (1979)
Il tunnel dell’orrore (1980)
La casa del tuono (1982)
Phantoms! (1983)
Incubi (1985)
Lampi (1988)
Cuore Nero (1992)
L’ultima porta del cielo (2001)
Il luogo delle ombre (2003)
Velocity (2005)
Nel labirinto delle ombre (2009)

“Stato di paura” di Michael Crichton

Thriller ambientale con una trama difficile da riassumere (infatti non ci provano nemmeno nelle alette del libro), Stato di paura è un romanzo di Michael Crichton del 2004. Gli argomenti trattati e le tematiche potrebbero essere attualissime (e lo sono), poiché l’autore, come sempre, precorre i tempi di parecchio.

Si parla di dispute climatiche su scala globale con il coinvogimento di multinazionali, associazioni ambientaliste, filantropi e ecoterroristi. I ghiacciai si stanno sciogliendo? L’anidride carbonica sta aumentando? C’è un surriscaldamento globale? È l’uomo il responsabile dei – presunti – cambiamenti? Cosa è vero e cosa è falso?

La verità è solo un’opinione quando in ballo ci sono milioni di dollari. Di ogni cosa si può dire tutto e il contrario di tutto. Gli ambientalisti sono finanziati dalle aziende, le aziende hanno enormi interessi economici e i governi dipendono da questi interessi. Gli studi scientifici ricevono fondi per confermare teorie che, se smentite, interromperebbero il flusso dei finanziamenti stessi. Tutto è marcio, tutto è, in qualche modo, corrotto. In un mondo dove domina il denaro, la sola certezza è che nessuno ne sa abbastanza. Il popolo poi, è pilotato da campagne mediatiche prive di basi scientifiche, basate sull’emozione e sul forte impatto visivo.

L’incipit di Stato di paura – con tantissimi luoghi e personaggi – è molto (troppo) simile a quello di Next, ma poi fortunatamente il romanzo torna in carreggiata e non si (dis)perde come il suo immediato successore. È un bene. Sono 680 pagine che ho letto tutte d’un fiato. Crichton fa crescere i dubbi, Stato di paura è un’occasione per riflettere, finalmente. Ogni convinzione è figlia della TV, delle notizie, dei media. Nulla è certo e, scavando, tutto diventa più complicato e sfaccettato.

La trama è inventata, spiega subito Crichton, ma i riferimenti agli articoli e agli studi no. A conclusione del romanzo qualche pagina, molto interessante, illustra il punto di vista dell’autore e elenca una lunghissima bibliografia.
Da leggere, anche solo per realizzare di “sapere di non sapere”.

Libri che ho letto di Michael Crichton:
Andromeda (1969)
Il terminale uomo (1972)
La grande rapina al treno (1975)
Mangiatori di morte (1976)
Congo (1980)
Sfera (1987)
Jurassic Park (1990)
Sol levante (1992)
Rivelazioni (1994)
Timeline – Ai confini del tempo (1999)
Stato di paura (2004)
Next (2006)
L’isola dei pirati (2009)

“Addio alle armi” di Ernest Hemingway

Trama.
Giovane ufficiale americano, autista di ambulanze, diserta durante la ritirata di Caporetto. Si ricongiunge con la fidanzata incinta, un’infermiera, rifugiandosi in Svizzera. [SPOILER CON FINALE]. Il bambino muore durante il parto, la donna muore poco dopo. L’uomo rimane solo. Fine.

Ho un rapporto difficile con Hemingway, gli ho sempre di gran lunga preferito Steinbeck, eppure Il vecchio e il mare è uno dei miei romanzi preferiti in assoluto. Forse è per questo che continuo a leggere altri romanzi dello scrittore, sebbene mi annoino. Addio alle armi non è stato da meno, una storia priva di qualsiasi emotività (se non nel finale) intrisa di un verboso machismo che non porta da nessuna parte. Qualcuno mi odierà per questo, chi se ne frega.

I dialoghi tanto decantati dell’autore, famosi per essere particolarmente asciutti, non mi hanno trasmesso nulla. La prima parte del romanzo poi, fino alla diserzione (pagina 200 circa, su 340), è un insieme continuo di scambi e battute (superflue) tra commilitoni. Semplicemente interminabile, Addio alle armi, tre settimane di lettura.

L’unico momento nel quale si intravede un senso e quello del finale, il ricovero in ospedale dell’amata, l’ombra della morte. La solitudine, la paura, la sofferenza. Ho letto che Hemingway ha riscritto questa parte qualcosa come 47 volte, prima di decidere quale fosse la versione definitiva. Il senso di sconfitta che aleggia nell’aria è palpabile, e forse val la pena soffrire tutto il libro per leggere queste ultime pagine.

Ho ancora sulla mensola dei “da leggere” altri quattro romanzi di Hemingway. Tuttavia, per quanto il fascino di un essere umano che si spara in bocca sia qualcosa, per me, di calamitante, inizio ad avere pochissime speranze sul fatto che possano piacermi. Vedremo.

Libri che ho letto di Hemingway:
Fiesta – E il sole sorgera ancora (1927)
Addio alle armi (1929)
I quarantanove racconti (1938)
Il vecchio e il mare (1952)
Vero all’alba (1954-56)

“Fairy Tale” di Stephen King

C’è qualcosa che devo premettere prima di parlarti di Fairy Tale, il nuovo romanzo di Stephen King. Non amo i gialli, e infatti ne leggo pochi. Non amo i romanzi storici, e infatti ne leggo pochi. Non amo del tutto i sentimentali, e infatti non ne leggo. Ebbene, anche il fantasy non è tra i miei generi preferiti eppure… eppure un po’ ne ho letti, di fantasy. Tutti i must, per capirci. Il Signore degli Anelli, ovviamente (ed è immenso), La Saga di Terramare, Le Cronache di Narnia… solo per citarne alcuni. Di King, nel genere, ho letto Gli occhi del drago e, sempre che possa considerarsi un fantasy – ma non credo proprio – tutta la stratosferica serie de La Torre Nera. Non ho ancora letto Il Talismano e La casa del buio, sono tra quei tre libri che lascio indietro che cito sempre a fine post.

Perché non apprezzo il fantasy? Perché il fantasy, a differenza dell’horror e della fantascienza, si pone già in una condizione di totale irrealtà che rende difficile empatizzare con i personaggi, capirne le turbe e i problemi. Mi spiego. Posso immaginare come mi sconvolgerebbe, a livello emotivo, un’invasione aliena o una creatura che esce dal fosso dietro casa (si parla di un reale che conosco che si scontra con l’immaginario/imprevisto), ma non riesco a identificarmi in un mondo dove elfi, draghi e giganti siano sempre eistiti. Come potrei? Non è il mio mondo. È un vero e proprio scostamento dal vivere quotidiano. Per me, almeno.

King, con Fairy Tale, fa qualcosa di grandioso, almeno inizialmente. In un romanzo di 700 pagine, le prime 200 non hanno nulla di fantasy.
Boom.
Le ho letteralmente divorate, quelle 200 pagine. Mi son ritrovato in un’atmosfera che ricordava moltissimo il racconto Il telefono del signor Harrigan (da Se scorre il sangue – tra poco ne uscirà il film su Netflix).

Un ragazzo, Charlie, entra in confidenza con il misterioso e burbero anziano che vive nella casa in cima alla collina e che ha palesemente qualcosa da nascondere. La madre di Charlie è morta in un incidente e il padre è un ex alcolizzato. A Charlie, alla sua storia, ti affezioni. Poi Charlie scende nel pozzo nascosto dietro la casa e raggiunge un altro mondo, insieme al fido cane Radar. E, all’inizio, funziona tutto comunque, perché quelle 200 pagine (il mondo reale) te le porti dietro. In quel pozzo ci stai scendendo anche tu, con tutti i tuoi problemi tangibili.
Ma, ahimè, non dura.
Non dura perché King questa volta calca la mano e – tra grilli semi-parlanti, principesse e gigantesse – ho avuto la sensazione (lo sto per dire, mai avrei immaginato) che il Re cercasse di parlare ai giovani… come lo farebbe un “vecchio” che cerca di imitare il loro linguaggio. A pagina 300 il mondo reale, che mi ero tenuto tanto stretto, l’ho dimenticato e ho cominciato ad annoiarmi (per inciso, il primo libro che ho letto di King è stato Gli occhi del drago e, nonostante fosse un fantasy puro, l’ho adorato). La storia prosegue con un regno che è stato usurpato e che deve essere riconquistato da un principe e una principessa. Mi fermo.

Non è stato sufficiente l’omaggio a Bradbury e a Il popolo dell’autunno per emozionarmi. Magari sono io, magari quel linguaggio funziona benissimo e i giovani, che oggi divorano i fantasy, rimarrranno soddisfattissimi da questo romanzo di King. Non lo so. Io appartengo a un mondo che è “andato avanti” e che “non ha dimenticato il volto di suo padre”. Un altro mondo, insomma, probabilmente posto lungo un altro Vettore, dove non gira una meridiana ma la ruota del Ka.

Ho letto quasi tutti i libri di Stephen King (ne ho lasciati indietro tre, per dopo), ma quelli di cui ti ho parlato sul blog sono questi:
Blaze (2007, come Richard Bachman)
Duma Key (2008)
Revival (2014)
Mr. Mercedes (2014)
Chi perde paga (2015)
Il bazar dei brutti sogni (2015)
Fine turno (2016)
La scatola dei bottoni di Gwendy (2017, con Richard Chizmar)
Sleeping Beauties (2017, con Owen King)
The Outsider (2018)
Elevation (2018)
L’istituto (2019)
Se scorre il sangue (2020)
Later (2021)
Guns – Contro le armi (2021)
Billy Summers (2021)
L’ultima missione di Gwendy (2022, con Richard Chizmar)
Fairy Tale (2022)

I fumetti (sempre solo quelli dii cui ti ho parlato sul blog):
Creepshow (1982)
The Stand / L’ombra dello scorpione (2010-2016)

I saggi su King (idem, vedi sopra):
Stephen King sul grande e piccolo schermo di Ian Nathan (2019)
Il grande libro di Stephen King di George Beahm (2021)

“Tutti i racconti Vol. 2 1954-1959” di Richard Matheson

Ho terminato ora questa seconda antologia di Matheson e credo che potrei ripeterti esattamente quanto già detto per Tutti i racconti Vol. 1 1950-1953 (ti rimando al post precedente, se desideri saperne di più), quindi non mi dilungherò troppo. Anche il volume relativo al periodo 1954-1959 contiene una varietà di racconti notevole, 500 pagine divise tra fantascienza, horror e qualche western, con alcune esplorazioni nel campo del thriller e del grottesco. Qualità altissima.

Una curiosità: è presente la riscrittura di uno stesso racconto – un western appunto – peraltro abbastanza lungo. È Va’ verso ovest ragazzo, rielaborato con il titolo Il conquistatore. Da lettore appare forse un po’ strano trovare due racconti praticamente uguali di seguito… ma se ami anche scrivere saprai apprezzare questa scelta editoriale.

Il mio racconto preferito: Una grossa sorpresa. La storia di un anziano che suggerisce a un ragazzo di andare a scavare in un campo una buca profonda tre metri. Oltre alla “grossa sorpresa”, c’è chiaramente molto di quello che poi si ritroverà in King, in questa storia.

Ho già anche il terzo e quarto volume della serie, a presto.

Libri che ho letto di Richard Matheson:
Io sono leggenda (1954)
Tre millimetri al giorno (1956)
Io sono Helen Driscoll (1958)
La casa d’inferno (1971)
Tutti i racconti Vol. 1 1950-1953 (2013)
Tutti i racconti Vol. 2 1954-1959 (2013)

“Yeti – Leggenda e verità” di Reinhold Messner

Sono sempre stato attratto da tutto ciò che è si trovi al limite dell’incredibile. Non posso farci nulla: UFO, sasquatch, bigfoot, yeti – appunto – e creature degli abissi varie. Misteri irrisolti e simili (vedi Il mistero del passo Dyatlov). Talvolta questa fascinazione nei confronti dell’insondabile offre anche qualche soddisfazione. Ad esempio, nel 2007 è stato catturato, morto, un calamaro colossale (mesonychoteuthis hamiltoni) del peso di 495 kg. Il suo occhio, il più grande del regno animale, misura tra i 30 e 40 centimetri di diametro. Un essere da oltre dieci metri di lunghezza, ritenuto fino a pochi anni fa una creatura mitologica. E invece no, esiste, e il suo corpo è esposto in un museo in Nuova Zelanda.
È con questo spirito che ho iniziato a leggere Yeti – Leggenda e verità, di Reinhold Messner. Un saggio del 1998 che, erroneamente e con un po’ di compiaciuto autolesionismo, consideravo alla stregua di un approfondimento alla Roberto Giacobbo. Senza nulla togliere eh, solo pensavo mi sarei trovato di fronte a qualcosa di molto leggero e affine alle misteriose e veloci luci nel cielo. Sbagliavo.

Messner, che non avevo mai letto e che rileggero, analizza il mistero dello yeti e lo smonta pezzo per pezzo. Lui, che tra Tibet e Himalaya ha trascorso gran parte della sua vita da esploratore, cerca e trova una soluzione al mito. Lo yeti, o tshemo come lo chiamano gli autoctoni, null’altro è che un orso. Anzi, per essere più precisi, lo tshemo è l’orso, lo yeti è la leggenda che nasce dal passaparola, dalla trasformazione che subiscono i racconti nel passaggio di bocca in bocca, nel passaggio tra ciò che vedono gli allevatori nomadi, con poche competenze scientifiche e molta immaginazione, e ciò che vuole vedere il mondo Occidentale.

Questo saggio è anche molto di più. È un racconto di appostamenti ed esplorazioni, di viaggi in un Tibet flagellato dalla Cina, di incontri e confronti. Questo saggio è una spiegazione precisa e dettagliata di ciò che può creare una divario culturale. Reinhold lo yeti l’ha visto, l’ha fotografato. Lì, con un contadino che gli dice: «È quello, non avvicinarti!»
Solo che, appunto, lo yeti è un orso.
Un orso che si nutre di yak e paura. Che nella notte sembra camminare su due zampe e che pare abbia rapito qualche fanciulla per portarla nella propria caverna…

Lo spazio per il mito, per la leggenda, rimarrà finché sarà presente uno spazio fisico che consenta al mistero di sopravvivere. Quindi, visto come vanno le cose, anche il mito finirà per estinguersi. Messner, in questo, lancia un messaggio che va ben oltre al tema soprannaturale.

“Nel labirinto delle ombre” di Dean Koontz

Nel labirinto delle ombre è il secondo romanzo di Dean Koontz avente come protagonista Odd Thomas (il primo è Il luogo delle ombre). Negli Stati Uniti, Koontz è arrivato al nono “episodio”, tuttavia da noi le traduzioni si sono fermate proprio a questo secondo. Odd è un ragazzo con dei poteri: vede le persone morte e cerca di portarle verso la luce, inoltre (per farla breve) attira e/o viene attirato dai guai (lui lo chiama magnetismo psichico). Il primo romanzo mi era piaciuto molto, questo, invece, l’ho trovato parecchio deludente.

Un giovane amico di Odd viene rapito, dopo che il padre è stato ucciso. Odd deve muoversi in fretta poiché il ragazzo soffre di una patologia che rende le sue ossa fragili come il vetro (la stessa de “L’uomo di vetro” di Unbreakable, per capirci). Lo cerca, lo cerca per tutte le 360 pagine del romanzo. La scenografia è quella di un resort abbandonato nel deserto dove, ti assicuro, non succede assolutamente nulla. Mi fermo.

Quando leggo romanzi di questo genere mi chiedo se siano stati scritti per contratto. Un racconto di 30 pagine tirato in lungo e gonfiato per essere impacchettato come un romanzo. La trama è quella che hai letto sopra, non c’è altro. Il “labirinto” del titolo è il resort e il sottosuolo nel quale Odd si muove, girando a destra, poi a sinistra, poi in un condotto, poi sulle scale, poi nei corridoi… È meglio che sia più esplicito: quando leggo romanzi di questo genere mi sento proprio tirato per il culo.

È un peccato, perché Odd è un bel personaggio e la narrazione in prima persona ti dà la sensazione di essere al suo fianco e condividere le sue paranoie/paturnie. Non è mai pesante, mai noiosa. È la storia a essere noiosa, più che altro a non-essere, perché non c’è.
Come altro potrei spiegartelo? Potresti leggere questo libro anche saltando i capitoli pari, o quelli dispari, e capiresti tutto lo stesso.
Che delusione, caro Koontz.

Libri che ho letto di Dean Koontz:
Il tunnel dell’orrore (1980)
La casa del tuono (1982)
Phantoms! (1983)
Incubi (1985)
Lampi (1988)
Cuore Nero (1992)
L’ultima porta del cielo (2001)
Il luogo delle ombre (2003)
Velocity (2005)
Nel labirinto delle ombre (2009)

“Nope” di Jordan Peele

Sarà difficile parlarti di questo film senza fare spoiler, ragion per cui a un certo punto ti avviserò e deciderai tu se andare avanti o meno nella lettura.
Nope è il terzo film di Jordan Peele dopo Scappa Get Out e Noi. Di cosa parla? Eccoci.

Oj ed Em, fratello e sorella, gestiscono un ranch specializzato nell’allevamento dei cavalli destinati ai set cinematografici. Il ranch è posizionato all’interno di una valle dove, fin dalla prima scena, accadono cose molto strane. Ad esempio cadono oggetti dal cielo (in apertura una moneta trapassa il cranio del padre dei due ragazzi), spariscono persone e ci sono cali di corrente. È il classico scenario da avvistamento UFO, ed infatti l’avvistamento avviene. Anche il “vicino di casa”, il gestore di un piccolo parco a tema cowboy, viene coinvolto in queste stranezze ed entra, così, nella storia. È l’occasione di una vita: riuscire a filmare un UFO darebbe una svolta agli affari. I due ci provano e io mi fermo.

Come per i precedenti due film del regista nero (non in quanto necessaria distinzione, ma poiché pare essere un dettaglio molto importante) l’idea è molto buona e il film funziona bene per i 3/4 del tempo, poi c’è il crollo. Il crollo totale. Ma facciamo un passo indietro.

Dicevo, Peele è nero e lavora con attori prevalentemente neri. Non solo, anche guardando i film dove lui è sceneggiatore e produttore e non regista, si trova sempre questo filo conduttore sulle sue origini (vedi Candyman o BlacKkKlansman). Il tema del gruppo etnico, delle minoranze, è molto sentito. Solo che – te lo dico subito – a mio parere Peele non è Spike Lee, ma è il prodotto del nostro tempo ricco di messaggi ma privo di contenuti. Ogni volta che esce un film di Peele pare sia una sorta di piccolo evento, una storia che vada studiata. La domanda che ti pongo è: se Peele non fosse nero e non trattase il tema delle minoranze, sarebbe lo stesso? La mia risposta è no. Mi dispiace, ma io trovo i suoi film perdibili, hanno tutti del potenziale ma c’è una grande incapacità di gestirlo. Peele è il prodotto del nostro Netflix culturale, è l’apparenza che supera di gran lunga i contenuti.

ALLERTA SPOILER
ALLERTA SPOILER

Anche l’idea successiva, quella per cui il disco volante non sarebbe un navicella aliena ma un animale che vive tra le nuvole, è in teoria buona e rappresenta sicuramente una novità. Il problema è che, come sempre, quando il non visto viene esplicitato finisce tutto in vacca. Dopo venti minuti di questa cosa che vola nel cielo – un ibrido tra una medusa e uno zeppelin sventrato, vagamente somigliante a una vagina – qualsiasi “magia del Cinema” decade e cominciano a sanguinarti gli occhi. Il monoespressivo Kaluuya non aiuta di certo, mentre scorrazza in groppa al cavallo a testa bassa per non guardare il mostro (eh sì, se lo guardi ti attacca).

Le tanto decantate critiche al sistema dello show business sono talmente esplicite che, a confronto, Zombie di Romero lanciava un messaggio criptico e nascosto.
Ho sentito vaghe associazioni tra Peele e Spielberg, ma non voglio nemmeno discuterne. Non scherziamo (e ricordati che io non sono un fan di Spielberg, è troppo ottimista e solare per i miei gusti).

È un peccato, perché Nope partiva davvero bene. Nelle inquadrature, nella storia, nelle ambientazioni. Poi però Peele, conscio della sua posizione, si adagia nella culla del nostro perbenismo che gli consente di fare poco e niente e non venire criticato. Che poi c’è il rischio che sembri tu stia criticando la giustamente intoccabile tematica delle minoranze e non un film, francamente, abbastanza assurdo.

Cosa mi è rimasto? Quasi niente. Sono giusto andato a rivedermi la cronaca nera dello scimpanzé Trevis, un evento che avevo dimenticato. Peele ne omaggia la vicenda mettendo in scena qualcosa di simile e mostrando uno scimpanzé che impazzisce sul set e massacra diversi attori. Tutto qui, nulla di più.

“La verità sul caso Harry Quebert” di Joël Dicker

Di questo romanzo si è parlato molto, moltissimo. È stato la fortuna del suo autore, Joël Dicker, che ha esordito a soli ventotto anni vendendo milioni di copie. È raro che io legga libri così “famosi”, lo sai, ma con La verità sul caso Harry Quebert (2013) ho vouto fare un’eccezione, anche perché mi è stato regalato (da una persona che manterremo anonima affibiandole un codice: T1). Quasi 800 pagine in meno di sei giorni. L’obiettivo – dichiarato – di Dicker era quello di scrivere una storia che obbligasse il lettore a non scollarsi mai dalla pagina, ci è riuscito.

La trama è nota. Nola Kellergan scompare nel 1975 all’età di quindici anni, dopo essere stata avvistata mentre scappava nel bosco inseguita da un uomo. Dopo trent’anni il suo corpo viene ritrovato nel giardino della casa di Harry Quebert, scrittore conosciuto sopratutto per il suo secondo e immortale bestseller Le origini del male. Si scopre che Harry nel ’75, a trentaquattro anni, aveva una relazione con Nola. È uno scandalo, Harry viene arrestato, condannato dal perbenismo dell’opinione pubblica. In suo soccorso corre un altro scrittore, il suo “discepolo” Marcus Goldman, deciso a indagare e a provare l’innocenza del maestro. Mi fermo.

Sarò sincero, questo è uno di quei romanzi che si dimentica in fretta. Ricco di colpi di scena, stravolgimenti e personaggi, difficilmente ti rimarrà in testa. È vero quello che dicono alcuni: non ti lascia niente, dopo. Tuttavia è altrettanto vero che, mentre lo leggi, non riesci a staccartene. È un vortice, un buco nero. Cominci a ipotizzare insieme a Goldman su cosa possa essere accaduto, a pensare di aver capito qualcosa (che, puntualmente, non hai capito). È un ottimo giallo quindi, un thriller che non lascia tirare il fiato e che strizza l’occhio sia a Twin Peaks (per l’ambientazione ristretta) che al Lolita di Nabokov. Ad aggiungere qualcosa in più c’è il rapporto tra Quebert e Goldman, un triangolo con la scrittura e lo scrivere. Una dichiarazione d’amore di Dicker alle turbe dell’artista.

Ho scoperto solo ora che esistono due seguiti, sempre con Goldman protagonista: Il libro dei Baltimore e Il caso Alaska Sanders. Li leggerò, perché anche se questo è puro intrattenimento, è un intrattenimento che funziona. Nel frattempo recupererò anche la serie tratta da La verità sul caso Harry Quebert, con Patrick Dempsey.
Se ami i gialli questo libro ti piacerà, non ho dubbi.

La vita, l'universo e tutto quanto.

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