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“L’ultimo sorso – Vita di Celio” di Mauro Corona

È difficile parlarti di questo L’ultimo sorso – Vita di Celio, faccio davvero fatica a inquadrarlo. Mauro Corona, nell’introduzione, ci tiene molto a precisare che Celio è un personaggio inventato, una sorta di summa di molti uomini che lui stesso avrebbe incontrato nel corso della propria vita. E quindi, cosa ho letto? Già, perché il tono è quello dell’omaggio nostalgico a un amico morto…

Celio è un uomo solitario, (molto) avezzo alle sbronze, amante della bottiglia, alcolista e bevitore (si è capito?). Trascorre gli anni tra scalate montane ed ermetismi verbali, cacciando qua e là camosci e altra selvaggina. Corona è per lui una sorta di figlio adottivo, qualcuno da prendere sotto la propria ala protettiva. Fine, più o meno.

Facciamo finta che Celio sia esistito davvero, che l’intro di Corona serva a non avere problemi legali per aver scritto una biografia non autorizzata. In questo caso il romanzo sarebbe davvero un gentile e sentito omaggio dell’autore a una vita “qualsiasi”, ma per lui molto importante. Il libro avrebbe, quindi, un valore morale ed emotivo molto alto. La realtà dei fatti caricherebbe di pathos anche le vicende meno interessanti (cioè quasi tutte), dando un significato al romanzo al di fuori del romanzo stesso.

Poi facciamo finta che sia davvero tutto inventato. Svuotato di una emotività reale, il romanzo perderebbe valore. Perché, in una storia così semplice, solo l’attinenza con il vero potrebbe rendere il racconto interessante. Nella lettura non mi sono affezionato a Celio, ma al nostalgico ricordo dell’autore. Se il ricordo risultasse essere un falso, la nostalgia non sarebbe sufficiente a reggere la storia (che vivrei un po’ come una presa in giro).

L’una o l’altra? Vero o inventato? Non lo so.

Libri che ho letto di Mauro Corona:
Il volo della martora (1997)
Le voci del bosco (1998)
Nel legno e nella pietra (2003)
Aspro e dolce (2004)
L’ombra del bastone (2005)
Storie del bosco antico (2005)
I fantasmi di pietra (2006)
Vajont: quelli del dopo (2006)
Cani, camosci, cuculi (e un corvo) (2007)
Storia di Neve (2008)
Il canto delle manére (2009)
La fine del mondo storto (2010)
Come sasso nella corrente (2011)
La casa dei sette ponti (2012)
Venti racconti allegri e uno triste (2012)
Confessioni ultime (2013)
Quasi niente con Luigi Maieron (2017)
L’ultimo sorso – Vita di Celio (2020)

“Druk – Un altro giro” di Thomas Vinterberg

Druk (Un altro giro) racconta la storia di quattro amici, insegnanti nella stessa scuola superiore, che decidono di testare la teoria dello psichiatra Finn Skårderud. La teoria prevede che l’essere umano sia nato con lo 0,05% di alcol nel sangue e che, in realtà, solo mantenendo questa percentuale possa raggiungere la felicità e la soddisfazione nella propria vita (sintesi molto ermetica, ma questo è). I quattro stabiliscono una vera e propria tabella di marcia e si lanciano nell’impresa, con risultati altalenanti, anche a causa dei differenti stili di vita.

I tre imbecilli seduti al mio fianco non hanno capito nulla del film, appena lo schermo è diventato nero si sono esibiti nel grande classico «Ma che senso ha?» «Probabilmente nessuno, prova a guardare su internet». Posso immaginare che sia frustrante essere scemi e trovarsi anche con nove euro in meno in tasca (questo il prezzo del biglietto, per riportare la gente nelle sale), tuttavia ciò dovrebbe farti intuire che Druk non è che sia un film proprio per tutti. Io, per la cronaca, l’ho trovato fantastico. Per la precisione: delicato come un passerotto e potente come un elefante.

Druk fa ridere (e sorridere) per il 90% del tempo. Mads Mikkelsen è straordinario, ma in verità tutto il cast funziona molto bene. Nonostante le differenze culturali con la Danimarca siano “importanti” (anche solo per quanto riguarda l’utilizzo degli alcolici) e, quindi, ci si perda qua e là qualche sfumatura, è impossibile lasciare la sala senza avere qualcosa che ti si ripiega dentro. Perché Druk è un film sulle occasioni mancate (e su quelle non mancate), sui sogni che non si sono realizzati (o che si sono realizzati). Druk è un film su quello che si pensava di diventare, sulla vita che si sperava di avere, e sulla normalità che ti investe con tutta la sua forza, rendendoti ordinario prima che tu abbia il tempo di accorgertene.

Druk è anche il primo film che vedo che proponga una soluzione estrema (l’alcol, appunto) senza consacrarla né condannarla. È un po’ come se ti dicesse: «Guarda, se vuoi si può fare questa cosa. Certo, ci sono i pro e i contro». La brutalità della vita è tale da rendere giusitificabile un certo grado di anestesia, insomma. Ed è così che, se l’obiettivo della tua giornata diventa comprare il latte o il merluzzo al supermercato, forse tanto vale farlo da ubriaco.

[SPOILER] Il rischio di scivolare c’è ed è dietro l’angolo (così come l’alcolismo e la morte), ma c’è anche il “rischio” di raggiungere un qualche tipo di libertà. Il ballo finale di Mikkelsen (che sognava di fare il ballerino) tra gli studenti neodiplomati – con tutti i loro sogni ancora interi – è qualcosa di poetico, disperato e positivo contemporaneamente. È una sovversione delle regole che richiede, appunto, un certo livello di anestetizzazione per essere attuata.

P.s. Questo film ha vinto svariati premi, tra i quali l’Oscar come migliore film straniero. Ora  pare che Di Caprio abbia acquistato i diritti per produrne un remake statunitense. La domanda è: perché?

“Donne” di Charles Bukowski

Donne era uno degli ultimi due romanzi che mi mancavano di Charles Bukowski (insieme a Hollywood, Hollywood!). L’altro giorno ero al mercatino dell’usato e me lo sono trovato davanti, alla modica cifra di 3 euro (difficilmente lo si riesce a recuperare a meno di 25 euro). Io del “vecchio sporcaccione” ho letto parecchio (purtroppo prima di aprire questo blog), e ti confermo che continuo a preferire i romanzi ai racconti, come ti avevo già detto quando ti ho parlato di Compagno di sbronze.
[Per dovere di cronaca: le poesie invece non le ho mai lette.]

In Donne lo scrittore sfoggia tutto il suo repertorio, con particolare attenzione al sesso (come se fosse necessario…). Il protagonista è Henry Chinaski, usuale alter ego di Bukowski, che tra una sbronza e l’altra scopa, scopa, scopa. Questo non è sicuramente uno dei romanzi più articolati di Charles, tanto che sarebbe quasi possibile iniziare a leggerlo da una pagina a caso senza sapere cosa sia successo prima. Chinaski descrive la sua vita, trascorsa a correre il lungo e in largo per gli Stati Uniti a fare letture pubbliche organizzate dal suo editore. Viene letteralmente sommerso da donne facili che gli telefonano, scrivono lettere o si presentano alla porta di casa, pronte a concedersi e umiliarsi per poter testare il viril membro dell’artista/poeta. Quanta sia la verità non è dato sapersi, resta inteso che si parla quasi sempre di relitti umani: drogate, alcolizzate, pazze psicotiche, ecc.

Poi lui ogni tanto tira fuori delle perle, eh. Quelle cose che quando le leggi dici: «Cazzo, è proprio così!». E le descrive con una semplicità disarmante. Mi viene in mente un passaggio in cui si lamenta dell’alto volume dello stereo dei vicini, e scrive una cosa tipo (non cito letteralmente): «Chi ascolta lo stereo tiene il volume alto e le finestre aperte, convinto che se quella musica piaccia a lui debba per forza essere interessante anche per tutti gli altri».

Forse non è il romanzo migliore dal quale iniziare, se non hai mai letto Bukowski. Ti consiglierei sicuramente Panino al prosciutto o Pulp, poiché riescono a integrare lo stile indiscusso dello scrittore con una trama più articolata, coinvolgendoti maggiormente. Devo però dire in difesa di questo libro che, nonostante le 300 pagine e la scarsità di argomenti, scorre via comunque veloce. Il linguaggio, spesso volgare ma sempre semplice, ti consente di rilassarti, di conservare un po’ di curiosità su come Chinaski affronterà il prossimo pompino.
Oltre che ubriaco, si intende.

“La leggenda del santo bevitore” di Joseph Roth

Avevo un’oretta disponibile e mi sono trovato questo libretto tra le mani. E’ un racconto veloce veloce di circa sessanta pagine.

La trama è nota. Un senzatetto alcolizzato contrae un debito con un generoso sconosciuto, che lo elemosina di alcuni denari. Unica sua missione (non troppo convinta), e voto nella vita, diventerà quella di restituire il debito sotto forma di donazione a Santa Teresa, nella chiesa di Santa Maria di Batignolles. Ogni pretesto sarà valido per posticipare questa azione.

Il film non l’ho visto, però avevo letto critiche molto felici al libro e quindi mi sono buttato. A mio parere niente di particolare, non ho trovato riflessioni sulla vita di rilevante interesse. Un po’ tirata, si potrebbe azzardare una sorta di critica su come il denaro cambi e influisca sulle intenzioni e le personalità. E’ un misto tra un Bukowski trattenuto e la visione della vita da parte di un alcolizzato (che poi è la stessa cosa).
Preferisco Bukowski, appunto. O John Fante.