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“The life of Chuck” di Mike Flanagan

Ti avevo già parlato de La vita di Chuck quando avevo letto l’ottima raccolta di racconti di Stephen King Se scorre il sangue, quindi già sai che il racconto era veramente bello. E no, King non scrive solo horror, ma questa è difficile da far digerire al pubblico (che ha sempre bisogno di etichettare tutto per sentirsi a proprio agio). Mike Flanagan, invece, fino ad ora aveva diretto solo robe horror (o molto affini) e questo è, credo, il suo primo sconfinamento. A me Flanagan piace, sia nelle serie che nei film, ti cito solo Oculus – Il riflesso del male e Midnight Mass come esempi, ma c’è altro suo di notevole (peraltro è al terzo adattamento – di seguito – da King).

Te lo dico subito, The life of Chuck mi è piaciuto. Non lo definirei certo, come indicato sul poster, “il miglior adattamento di Stephen King mai realizzato”, ma quello è marketing. Flanagan fa un buon compitino, ma questo non toglie che non sia Reiner e nemmeno Darabont. E ti cito nomi relativi a film “filosofici” tratti da King (un paragone onesto), senza spingermi su campi, appunto, horror, con De Palma, Carpenter o… ancora Reiner e Darabont!

Un po’ di trama, dai. Il film, come il racconto, è diviso in tre atti e parte dalla fine.
Atto tre: Grazie, Chuck! – Il mondo sta per finire. Seguiamo la vita di alcune persone che assistono a disastri sempre più catastrofici (senza che ci vengano mostrati). Dappertutto compaiono ringraziamenti diretti a un certo contabile di nome Charles “Chuck” Krantz per “39 fantastici anni”.
Atto due: Artisti di strada – Una batteria viene suonata da un’artista di strada. Chuck, contabile di 39 anni, si ferma a ballare coinvolgendo una donna. Offre al pubblico un vero e proprio spettacolo, una cosa da lasciare con la bocca aperta.
Atto uno: Contengo moltitudini – La giovinezza di Chuck. Genitori morti, vita con i nonni. Grande passione per la danza, destino da contabile. Un cupola in cima alla casa che nasconde qualcosa.

Nel vedere il trailer avevo pensato che ci fossimo: cazzo, stavolta si piange. Sentivo proprio il “groppo” in gola. E invece no. Per questo ti ho parlato di “compitino”, perché qualcosa manca in un film molto delicato, forse troppo. Eppure ci sono dei momenti di poesia stupendi: uno su tutti lo spegnimento delle stelle nell’atto tre (forse la sequenza più bella di tutto il film). La lacrima, tuttavia, non scende. C’è sempre un certo contenimento, anche nella scena di ballo che, con poco, sarebbe potuta esplodere (mi viene in mente il ballo simile e carico di significato di Mikkelsen in Druk).

Oh, chiariamoci, è un bel film, vai a vederlo. Poi io l’ho visto nel cinema di paese, dove ho preso due biglietti con 8 euro invece di comprarne uno con 10 nella blasonata multisala monopolistica cittadina. Quindi nessun rimorso.

“Una celebrazione della vita”… non lo so.
Qui ti offrirei una doppia lettura.

La prima è per gli ottimisti.
Chuck ama la danza ma nella vita finisce a fare il contabile. Nonostante un lavoro noioso, Chuck riesce a vivere dei piccoli momenti di piacere – tra i quali quello del secondo atto – celebrando la sua passione e sapendosi accontentare di queste gioie inattese.

La seconda è per i realisti.
La parola chiave diventa “accontentare”. La vita uccide la passione di Chuck che può solo accontentarsi di piccoli momenti che gli ricordano, appunto, la sua vera passione, alla quale ha dovuto rinunciare.

Hai presente quando ti dicono che devi saperti accontentare delle piccole cose? Ecco. Tipo me, oggi, che mi stavo lavando i denti mentre rispondevo ai messaggi di lavoro sul telefono e con un piede libero accarezzavo il cane. Tutto per guadagnare tempo e, magari, riuscire a fare una corsetta nel pomeriggio. Spoiler: ho interrotto la corsa per lavorare.
Contengo moltitudini, sì, che si spengono come le stelle di Chuck.

Fanculo l’accontentarsi delle piccole cose, rimango realista.

“Weapons” di Zach Cregger

Finalmente un horror che vale il – carissimo, 10 € – biglietto del cinema. Per dirtela, con un termine puramente tecnico, temevo la solita “cagata pazzesca” e invece no… Weapons di Zach Cregger, regista già del godibile Barbarian, mi ha fatto uscire dalla sala proprio soddisfatto, una volta tanto. Sembra quasi un miracolo, oggi, quando ormai tutti gli horror si basano sui jumpscares e il fantasma-di-salcazzo-a-cavallo che si sta vendicando di chissà quali sciagure. Weapons ripeto, FINALMENTE, è diverso.

Oh, non è un capolavoro indimenticabile, non confondiamoci, però è un buon horror con tutte le carte in regola e con la capacità di costruire una storia, e non solo una serie di momenti spaventosi. Che poi, a me, gli horror piacciono. Mi sono sempre piaciuti. Il problema è proprio quello di ritrovare qualità in un genere che è stato relegato a nicchia per cerebrolesi che si accontenano di poco (peraltro cosa falsa, una vera e propria “discrimanzione di genere”).

La trama la conosci, ma comunque…
In una piccola cittadina americana, alle 2.17 di notte, tutti i bambini di una classe elementare, tranne uno, escono dalle proprie case e spariscono nel buio. Vengono ripresi dai videocitofoni, semplicemnete corrono via, come puoi vederli nella copertina. La piccola comunità, non sapendo cosa fare, accusa la maestra della classe, senza alcuna prova. La maestra che non è una santa per i moralisti americani (ha una storia con un poliziotto sposato) ma che, comunque, sembra molto attenta al benessere dei bambini. Un genitore, Josh Brolin, non si arrende e comincia a indagare, coinvolgendo la maestra e scontrandosi con altre figure che, in qualche modo, rendono Weapons un film corale.

A differenza di quanto viene dichiarato dalla voce narrante sui titoli di testa, la storia troverà piena soluzione agli occhi dello spettatore. E questa è buona cosa. Diciamolo, non se ne può più dei finali aperti che sono tali solo per enormi buchi neri nella sceneggiatura. Weapons, con la sua struttura che racconta la storia da diversi punti di vista, piano piano attacca tutti i pezzetti del puzzle. Inizia come un film cupo, per poi fare qualche deviazione nel grottesco, in uno stile che ricorda il Drag me to Hell di Sam Raimi, e nel frattempo offre anche qualche piacevole critica sociale al pensiero perbenista americano. Ci butta dentro anche qualche scena anticamente splatter, senza esagerare, dosando con sapienza.

È un film da vedere? Sì. Il suo folk horror unito a quel qualcosa che, come molti hanno notato, ricorda le caratteristiche di Stephen King (la piccola comunità, i segreti dei protagonisti…) rende l’insieme un ottimo pasto. Peraltro di King sto leggendo Never Flinch, con la paccosissima Holly Gibney, quindi a breve ci risentiremo e riparleremo di horr… a no, questo è l’ennesimo romanzo thriller del quale, forse, non si sentiva troppo il bisogno. A presto.

“Una pallottola spuntata” di Akiva Schaffer

Film facile, post complicato. Sono tanti i sentimenti che si scontrano in queste righe, i ricordi. Una pallottola spuntata è una di quelle serie di film che non può slegarsi dal suo protagonista originale, il grandissimo Leslie Nielsen, capace di passare da un’espressione seria a una “faccetta buffa” in un millisecondo. Qualsiasi remake o seguito sarebbe stato difficile da digerire per qualsiasi fan della serie originale.

La trama è ininfluente. In una scenografia totalmente anni Novanta, c’è il solito cattivone con un piano superdiabolico per riportare la popolazione della Terra allo stadio primitivo. Ci sta, è il mood giusto. La demenzialità della storia e le gag sono in puro stile Una pallottola spuntata, non si può certo dire che sia stato tradito il genere. Probabilmente la supervisione di Seth MacFarlane come produttore ha garantito la “qualità” e il marchio. Quindi anche qui abbiamo un centro pieno, si ritrova quello che ci si aspetta. Quello che manca, in sostanza, è Leslie Nielsen (e non c’è un cazzo da fare).

Liam Neeson (73 anni e non sentirli) fa una cosa intelligente, chiariamolo: lui non ci prova nemmeno lontanamente a imitare Frank Drebin Senior. È conscio dei limiti e delle differenze e il suo Junior è un altro personaggio. Gli omaggi nei confronti di Nielsen e della serie originale mostrano il rispetto che tutta la produzione ha avuto. Anche la femme fatale Pamela Anderson funziona bene, tanto quanto Priscilla Presley. Ma, in tutto questo, quello che manca è sempre lui. Perché, diciamolo, senza Nielsen anche tutta la serie originale sarebbe stata una “cagata pazzesca” (cit.), nel senso negativo del termine. Questo era un contenitore che funzionava bene perché c’era un buon ingrediente.

Non saprei neanche dirti chi mi sarebbe piaciuto vedere al posto di Liam Neeson e quindi non si può dire che lui non abbia dato il meglio, perché l’ha fatto. Anche un Will Ferrell sarebbe stato eccessivo, gli sarebbe mancato quel lato serio necessario all’ironia del personaggio. E così, tra quello che avresti voluto e quello che ormai non si può più avere, il film strappa qualche risata, ancorata ai ricordi del passato e di un’epoca che non c’è più, a una comicità ormai difficile da replicare (sono state scientificamente evitate zone d’ombra politicamente scorrette).

E così, un po’ come Frank Drebin, che usciva dal cinema spaccandosi dalle risate dopo aver visto Platoon, tu esci con qualche lacrima di nostalgia da Una pallottola spuntata. È un mondo al contrario che non è più il tuo: “non ci sono più le cose come si facevano una volta” e “si stava meglio quando si stava peggio”.

“28 anni dopo” di Danny Boyle

Sì, lo so, sarà un mese che non pubblico nulla e il motivo è presto detto: sto leggendo Pensieri lenti e veloci di Kahneman, saggio davvero molto interessante ma per nulla scorrevole (sono a metà). Detto questo, era anche parecchio che non andavo a farmi rapinare al cinema (10,50 euro) ed eccomi quindi qui a (s)parlarti di 28 anni dopo di Danny Boyle, seguito di 28 giorni dopo (quell’altra roba in mezzo nemmeno la consideriamo), questa volta senza Cillian Murphy, che resta solo in veste di produttore.

La trama, per questo tipo di film, è a mio parere pressoché inutile, ma comunque… Il virus si è evoluto e la Gran Bretagna è stata abbandonata dal resto del mondo, che invece vive tranquillamente. Quello che vediamo noi è una comunità su un’isoletta minuscola che è riuscita a isolarsi dalla terraferma, raggiunngibile solo con la bassa marea tramite una strada presidiata. Qui un padre, Aaron Taylor Johnson, cerca di preparare il figlio agli orrori causati dal virus, mentre sua moglie ha evidenti problemi di testa dovuti a una qualche sconosciuta malattia. La faccio breve: il figlio scappa con la madre sulla terraferma in cerca di un medico, Ralph Fiennes, che vive isolato tra i morti. Mi fermo.

Il film è scritto da Alex Garland (Ex Machina, Men, Civil War…) e questo avrebbe potuto renderlo qualcosa di grandioso, tuttavia – neanche tanto per colpa del sopravvalutato Danny Boyle – si colloca anonimamente nel filone zombie (perché alla fine è di questa salsa che si parla, virus o non virus). È brutto? È bello? Mah… Ormai il canone del genere è talmente standardizzato che, seguendo le regole base, è anche difficile tirare fuori una ciofeca (molto di più, una qualche novità). È, appunto, anonimo, dimenticabile. Come tutti gli altri è eterno debitore del genio di Romero e non sarà certo l’evoluzione del virus, che crea fantomatici elementi più intelligenti denominati Alpha, a renderlo memorabile.

Un film da piattaforma online, non da cinema, considerato il costo. Non vale l’investimento. Credo che l’ultimo film ad essermi piaciuto di questo genere, dopo quelli del già citato Romero, sia stato World War Z, fosse anche solo per la presenza di Brad Pitt. Pare che ci saranno altri due seguiti, sempre con Garland alla scrittura ma non con Boyle alla regia. Non che cambi qualcosa, questa volta, davvero, non credo sia colpa di Boyle (che, chiariamolo, ha fatto film divertenti, ma non capisco proprio l’adulazione nei suoi confronti). Siamo a livelli di The Walking Dead, nulla di più. D’altra parte, se ci si riflette, in comune hanno anche l’inizio della serialità (alla faccia delle innovazioni): un uomo si risveglia dal coma in ospedale e nel frattempo nel mondo è successo qualcosa…

Una nota: il film è interamente girato con l’Iphone. Non si nota e questo la dice lunga sull’evoluzione della tecnologia.

“Beetlejuice Beetlejuice” di Tim Burton

Beetlejuice – Spiritello porcello (1988) è stato uno dei film della mia infanzia. Lo metterei tranquillamente insieme a quei film generazionali come ET, Stand by me, I Goonies, I Ghostbusters e tanti altri (mi fermo perché uno tira l’altro). Il rischio del disastro, quindi, nell’andare a toccare storie così legate alle emozioni della giovinezza è davvero molto alto (basti pensare a quello che hanno fatto ai poveri acchiappafantasmi, appunto). Tim Burton, poi, è un regista che ultimamente non mi ha soddisfatto molto. Lasciando perdere quella schifezza netflixizzata di Wednesday, credo che l’ultimo suo film che mi sia piaciuto sia stato La sposa cadavere, se non, addirittura, Big Fish. Insomma Beetlejuice Beetlejuice si presentava come un vero rischio, una di quelle cose per cui avrei potuto uscire dal cinema incazzato e amareggiato. Non è successo. Non siamo di fronte a Edward mani di forbice, chiariamoci, ma non ho nemmeno rimpianto i soldi del biglietto.

Io la trama non te la racconto, in questo caso meno che mai. Siamo di nuovo a Winter River, c’è il plastico, ci sono Michael Keaton, Winona Ryder e i microcefali, e lo spiritello viene evocato in modo più o meno voluto, come da copione. A differenza del primo capitolo, poi, ci sono molte più sottotrame che si intrecciano tra loro (è un film meno intimo e più corale), rendendo tutto meno lineare e un pochino più articolato. Uno di queste sottotrame è quella totalmente inutile con Monica Bellucci, sì, e non dirò altro a riguardo. È un prodotto molto semplice, sebbene più complicato del suo predecessore (e questo ti dà un’idea di come ci accontentassimo di poco una volta).
Ovviamente, non è in alcun modo uno stand alone, se non hai visto il primo film o lo recuperi (consigliato) o ti dirigi verso altro. Il livello di citazionismo, ma anche il richiamo logico della trama, è tale per cui tu non possa vedere Beetlejuice Beetlejuice senza aver visto Beetlejuice – Spiritello porcello (ma che te lo dico a fare).

Fermo restando, quindi, che la funzione amarcord rimanga la vera spinta del film, sono presenti anche delle novità e dei personaggi davvero godibili. Uno su tutti quello di Willem Dafoe (che non sbaglia mai un colpo) che impersona un agente di polizia dell’aldilà con il background dell’attore di Hollywood morto sul set: in pratica si spara le “pose” dall’inizio alla fine del film, e ti fa morire dal ridere.
È invece incredibile come Michael Keaton, sotto tutto il cerone, non faccia quasi notare gli anni trascorsi. Ricordiamoci che la sua carriera è scoppiata proprio grazie a questa interpretazione.
Il finale è forse un po’ affrettato, ma questo non è molto diverso da quanto si era visto in precedenza. Alla fine i Beetljuice li guardi più per l’atmosfera che per le trame di per sé.

Tutto qui, quindi. Non un capolavoro, ma nemmeno una delusione, e questo vale già molto. Ho sentito qualcuno sostenere che questo secondo episodio fosse meglio del primo… ecco, non mi spiengerei mai a tanto, anche solo per l’originalità dell’idea che qui, per forza di cose, non può avere lo stesso peso.

“Alien Romulus” di Fede Álvarez

Questo sarà un post cattivo, incazzato e stanco (cit. Highway Gunny), te lo dico subito, così lo sai. Ieri sera sono andato a vedere Alien Romulus di Fede Álvarez con grandi aspettative, considerate le recensioni positive, e sono rimasto profondamente deluso. Peraltro, cena (nel poco-più-che-fast-food vicino al cinema) e film totale 40 euro, una cifra esorbitante. Dimmi tu se devo pagare un film 10 euro e una birra 7, siamo alla follia…

Partiamo dalle cose positive (non so perché parlo al plurale che ce n’è una sola), cioè la trama. Diciamolo, tutta la saga di Alien non si è mai distinta per l’intreccio, non ha mai puntato su questo e non è quasi mai stato un problema, perché i film erano, in genere, sostenuti da altri fattori. Romulus in questo non fa differenza. C’è una storia accettabile e dignitosa che non ha nulla di più e nulla di meno di quelle dei suoi predecessori.

Sunto breve breve eh, che se lo vuoi intero su Wiki c’è tutto.
La protagonista è Rain, una ragazza orfana e contrattualmente schiavizzata da una compagnia mineraria – su un pianeta lontano-lontano – che vive con un androide nero e ritardato (e con questo posso salutare definitivamente il politically correct) che rappresenta la sua unica famiglia. I co-protagonisti sono gli amici altrettanto schiavizzati di Rain, che scoprono una nave enorme e abbandonata della Weyland Corp in orbita attorno al pianeta che sta per essere distrutta da un anello di detriti (come possano scoprirlo solo loro e nessun altro dei “poteri forti” rimane un mistero). Sulla nave sono presenti delle capsule di stasi criogeniche, indispensabili al gruppo per affrontare la fuga, lunga anni luce, sotto forma di bastoncini Findus congelati. La chiave per la riuscita del furto e della fuga è proprio Andy, l’androide ritardato, perché può accedere ai sistemi della Weyland. Partono all’avventura e, ovviamente, la nave è piena di facehugger (i famosi ingravidatori orali). Mi fermo.

Questo film doveva strizzare l’occhio alle nuove generazioni, e probabilmente lo fa, ma sceglie quelle brutte, quelle dei trapper, dei maranza e simili, non certo le nuove promesse per il futuro. Ne avevo giusto dietro una decina in sala (di simil-maranza), che hanno fatto un casino bestia, totalmente disinteressati ai pochi momenti di costruzione della trama e parzialmente attenti solo alle scene di azione.
Io ricordo quei film “spaziali” del passato dove l’equipaggio era composto da membri che avevano competenze specifiche definite, come razionalmente dovrebbe essere. Il medico, il militare, il pilota, il tecnico riparatore e via dicendo. Qui no, qui è il tripudio di quelli che non sanno fare un cazzo ma riescono a fare tutto. La festa dei non-studiati. Un po’ come quelli che oggi, sui social, ti spiegano la politica internazionale e la scienza senza aver capito come funziona l’italiano. Ecco, l’equipaggio è questo, a partire da quello che sa usare un’arma multifunzionale perché gioca con i videogiochi. Finiamola: io ho preso tutte le patenti oro di Gran Turismo ma prova a mettermi su una Ferrari che ti faccio vedere come muoio alla prima curva.
Ecco come Alien Romulus strizza l’occhio alle generazioni sbagliate del futuro, ignorando quelle giuste e relegandole ai margini.

I membri dell’equipaggio non sono più divisi per competenza ma per distinzione sociale in stile Netflix. Un sistema che si accartoccia su sé stesso. C’è l’androide nero e ritardato che viene tutelato per tutto il tempo, nonostante sia insito nel suo programma originario di servire la compagnia Weyland, che vorrebbe ibridare gli alieni con l’uomo. Eppure l’unico che vorrebbe vedere il sintetico morto (perché un sintetico gli ha ucciso la madre, mica così, gratis) viene chiaramente malvisto, quasi fosse un nemico della minoranza di turno. Eh, ma non si può certo volere morto un nero ritardato passandola liscia, no? Che poi io mi chiedo, un robot che sarà sempre al servizio di qualcuno – sia essa la compagnia o la stessa Rain – nero? Ma davvero? Forse è perché l’anno costruito i cattivi, che non sono abbastanza furbi da pensare ai problemi relativi alle disuguaglianze. D’altra parte sono troppo impegnati a conquistare l’Universo.

In ogni caso, il film sarebbe finito subito se non fosse che, fortunatamente, gli xenomorfi devono aver firmato qualche contratto con una casa di dentifrici che li costringe a digrignare i denti per dieci minuti prima di ogni attacco, dando così il tempo ai protagonisti di difendersi ogni volta. Che poi, io ricordo quanto ci volesse, nei primi Alien, a far fuori uno di questi cosi dall’alito fetente: tipo mezzo film. Qui no, qui con un fucile in due minuti uccidi dieci mostri. Sarà che bisogna essere bravi con i videogiochi e Sigourney Weaver evidentemente non lo era. O sarà che oggi si ha fretta di vedere le cose accadere, il sangue schizzare, mica si può star lì a costruire la tensione, sai che noia.

Insomma, citazionismo a parte (sempre apprezzato in mood nostalgia amarcord) questo Alien Romulus si piazza appena sopra ai due contro i Predator, che facevano, come noto, proprio schifo.

“Led Zeppelin – The Song Remains the Same” di Peter Clifton e Joe Massot

The Song Remains the Same è un film-concerto ripreso durante l’evento di tre giorni del luglio 1973 al Madison Square Garden di New York e addizionato, successivamente, di brevi filmati simil onirici riguardanti i quattro membri della band (filmati necessari a riempire alcuni buchi delle riprese stesse). Riproposto al cinema in soli tre giorni di marzo di questo 2024 alla modica cifra di 13 euro (però ti “regalano” una bella locandina per oliare la cosa). Sul concerto non ci sarebbe nulla da dire: una roba epica, musica vera, musicisti veri, pubblico vero. Insomma, tutto quello che ormai non siamo più abituati a vedere e sentire.

In 137 minuti di psichedelia si ha la fortuna di riascoltare live la scaletta composta da:
Rock and Roll
Black Dog
Since I’ve Been Loving You
No Quarter
The Song Remains the Same
The Rain Song
Dazed and Confused
Stairway to Heaven
Moby Dick
Heartbreaker
Whole Lotta Love

È subito chiaro che il rapporto tra il numero di pezzi e il minutaggio sia particolare e questo non certo per le riprese inserite extra concerto. “Dazed and Confused” raggiunge i 26 minuti di estensione, “Wholla Lotta Love” i 15, per non parlare del fantastico e infinito assolo di batteria a mani nude di Bonham su “Moby Dick”. Storia del rock, storia della musica.

Un palco minuscolo, un pubblico enorme. Cose alle quali non siamo più abituati, appunto, cose che il pubblico di oggi, assuefatto di stronzate, non è più in grado di apprezzare. La Musica protagonista – non le scenografie o altre cazzate ormai necessarie per l’intrattenimento del vuoto cosmico dei cervelli – solo la Musica. Vera, pura, semplice e super complessa allo stesso tempo. Arte allo stato puro. Un film, un concerto, che andrebbe fatto vedere nelle scuole, si sa mai che ci sia un piccolo Jimmy Page da qualche parte che stia cercando un’ispirazione, una faro, nel buio che circonda la produzione contemporanea.

Quando mi capita di assistere a eventi come questo non posso fare altro che arrabbiarmi, per le occasioni perse, per il nulla moderno, in campo musicale, ma non solo. Sarà colpa delle produzioni, sarà colpa del pubblico, di entrambi, non lo so. Siamo ormai così lontani da come dovrebbero essere le cose belle, da rendere frustrante anche solo pensarci. Hai mai visto Mick Jagger interrompere un’esibizione perché «Oh, mio Dio, non mi arriva bene benissimo l’audio in cuffia»? Riesci anche solo a immaginare un Freddie Mercury con l’autotune? E Bon Scott che ti spiega in un reel come dispone i calzini nell’armadio? Dove cazzo siamo finiti? A guardare pseudo artisti “ribelli” che si leccano in modo rigorosamente politicamente corretto?

Molta fantascienza racconta di apici tecnologici raggiunti nel passato e poi mai più superati, a causa di un imbarbarimento dovuto a un olocausto nucleare o a un evento catastrofico. A noi questo è successo nell’arte, a causa di un olocausto culturale. Dobbiamo avere la roba pronta, tutta uguale e preconfezionata così che non faccia sforzare troppo i nostri stanchi neuroni. Serie invece di film, canzoni da tre minuti e mezzo, talent che inseriscono posteriormente gli ingredienti nei presunti artisti/capponi che si esibiranno di fronte ad altrettanti fan ripieni. Se no ci stanchiamo, se no siamo costretti a pensare.

A dispetto del titolo – mi spiace contraddire Plant e Page – la canzone, la musica, è parecchio cambiata. E così succede che l’unico modo per assistere a qualcosa di realmente esaltante sia tornare nel 1973.
Cazzo, che concerto.

“Dune – Parte due” di Denis Villeneuve

Questo post è più o meno un promemoria (serve a me per sapere cosa ho visto/letto nel tempo, d’altra parte in origine il blog era nato esclusivamente per questo), non starò a parlarti di Dune – Parte due. Perché? Perché mi è sempre sembrato abbastanza ridicolo parlare dei singoli film di una saga (con lo stesso regista e lo stesso cast, peraltro) suddividendo il commento in base a quanti film sono stati prodotti. Vuoi sapere cosa penso di Dune – Parte due? Puoi leggere quello che ho scritto di Dune – Parte uno, la mia opinione non è cambiata.

Frivolezze: inizio ad apprezzare Zendaya, soprattutto dopo aver visto il trailer di Challengers di Luca Guadagnino. In Dune – Parte due compare anche Lea Seydoux, che è sempre un gran bel comparire. Sembra incredibile che Elvis/Butler possa apparire così cattivo, bella trasformazione. Ho scoperto che ci sarà un terzo film, sempre di Villeneuve, che dovrebbe anche essere l’ultimo. Preghiamo tutti gli innumerevoli dei dell’umana fantasylandia religiosa perché il livello si mantenga a questa altezza.

Unica critica possibile per questo film è che soffra un pochino delle limitazioni che hanno tutti i film di mezzo di una trilogia: non ha inizio e non ha fine, ciò lo rende forzatamente più debole tra gli eventuali tre. Un po’ come per Le due Torri de Il Signore degli Anelli, insomma.

“Barbie” di Greta Gerwig

Che mese luglio, eh? Siamo tipo a cinque articoli sul blog, ne avrai le palle piene di sentirmi. Peraltro ritorno al cinema per due volte nel giro di una settimana, una cosa che non succedeva da almeno dieci anni (a 11 euro a film, un salasso economico nella città d’Italia più cara, per quella che ormai è una passione elitaria). Credo che quello relativo a Barbie, nella storia del blog, sia in assoluto il post più rosa e meno in target di sempre… Cosa mi ha convinto? Will Ferrell, ovviamente.

Ti preavviso che ci andrò leggero sulle tematiche, come fossimo al bar. Non ho la testa, in questo momento, per approfondire in modo più serio la cosa. Quindi mi concederò delle semplificazioni che tu accetterai di buon grado. Questa non è una democrazia.

Non ti parlerò della trama del film, diamo per scontato tu la conosca già, sai che non mi piace perdere tempo. Intanto però posso parlarti del pubblico: gli esseri umani sono, come sempre, orribili. I trailer mostrati prima della visione – una selezione del peggio in uscita questa estate – sono stati accuratamente selezionati per essero lo specchio della stupidità che ci si aspetta di incontrare in un’occasione del genere. Nonne vestite di rosa, mamme vestite di rosa, nipoti vestite di rosa. Una cosa da farti sanguinare i neuroni. Osservando i volti e gli abiti, ti riendevi conto di come la maggior parte delle donne presenti fossero il nemico principale di loro stesse, per quanto riguarda l’ambita parità di genere. Una frivolezza incredibile, soprattutto nel mostrare svariati centimetri di carne credendo che questo sia la “libertà”.

E qui viene la sorpresa. Già, perché Barbie è un film di gran lunga migliore della maggior parte del suo pubblico (ribadisco per la terza volta: la maggior parte, non tutto). Onestamente mi aspettavo la solita lezioncina perbenista e netflixiana sull’uguaglianza e la parità, appunto. Non è stato così. Della Gerwig avevo visto Ladybird, che però non ricordo. La cosa più terrificante è che sia la regista del prossimo e giustamente discusso Biancaneve senza i nani e questo mi ha creato, su di lei, un preconcetto che difficilmente, comunque, scalfirò.

Facciamoci un fuoristrada.
Questo dover legare le cose/persone/storie ai termini è di una idiozia colossale. Mi riferisco a Biancaneve, ovviamente. È solo marketing, non inventiamo altre stronzate. Dopo il presunto bacio-stupro del principe de La bella addormentata, ci mancava la rottura di cazzo sui diversamente alti di Biancaneve, che a quanto pare sarà anche senza principe. Chiariamoci, io non discuto le tematiche, non mi ci metto nemmeno. Io discuto sulla abominevole scelta ignorante di voler cambiare delle cose esistenti e farle diventare altro, mantenendone i nomi. Questo voler decontestualizzare un personaggio per forza, non ha alcun senso. Lasciamo Biancaneve lì dov’è, nel suo tempo, con i suoi errori, e facciamo altro. Qualcosa di nuovo, più giusto, più corretto. La verità, però, è che bisogna essere corretti ma guardare sempre al denaro. E questa è l’ipocrisia e l’incoerenza che caratterizza (quasi) tutta l’odiosa e inutile produzione cinematografica relativa a queste tematiche.

Torniamo a Barbie. Barbie non cade nel tranello e riesce a portare un messaggio in modo intelligente. C’è qualcosa di infra-genere nel modo in cui Barbie parla dell’attuale problema della diversità tra i generi (che poi, diversità, è un’altra di quelle bellissime parole che sono state demonizzate in favore di una visione superficiale). Perché anche Ken, come Barbie, è un po’ perso. È come se fosse l’essere umano a essere perso. Cosa che effettivamente è, visto quanto facciamo schifo e quanto siamo lontani dal concetto di evoluzione di specie.
Credo che la forza di questo film sia stata quella di dover viaggiare con il freno a mano tirato. Sì, perché Barbie è un film che può essere visto da un pubblico mooolto giovane, e questo avrò costretto la produzione a smorzare i toni. Paradossalmente, un messaggio meno esplicito e più leggero è diventato anche più intelligente, meno carico di finto perbenismo e più equilibrato. Più vero e reale, insomma.

Margot Robbie è perfetta nel ruolo e anche fisicamente. Ryan Gosling è perfetto nel ruolo e anche fisicamente. Purtroppo un pochino sottotono proprio Will Ferrell, che non esprime il suo potenziale al massimo. Un peccato, perché ci sarebbe stato un bel Ricky Bobby.

Nota per i miei studi di investimento: le azioni Mattel sono salite.

Note per i miei studi sulla specie: tanti discorsi ma la realtà è che non conta nulla, solo il denaro, speriamo di estinguerci presto.

“Indiana Jones e il quadrante del destino” di James Mangold

Sono andato a vedere l’Indiana Jones semi-apocrifo (poiché l’unico non girato da Spielberg, ma da James Mangold) e devo dire che, tirando le somme, mi è piaciuto.
♫ Nostalgia, nostalgia canaglia… ♪♪
Peraltro una nostalgia da godere e spremere fino all’ultima goccia, perché dubito rivedremo Harrison Ford vestire i panni di Indi, salvo rivisitanzioni come Indiana Jones e la prostata di fuoco.
Ti tolgo subito il dubbio: Indiana Jones e il quadrante del destino è di certo mooolto meglio de Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo (non che ci volesse poi tanto eh).

La trama io non te la racconto, mi rifiuto. Se sei qui significa che la conosci già. C’è un oggetto da recuperare, un mistero da svelare, i nemici nazisti (sebbene il film sia ambientato nel periodo dell’allunaggio) e un po’ di soprannaturale. Insomma, c’è tutto quello che serve a caratterizzare un Indiana Jones degno della trilogia “classica” (e no, niente alieni fortunatamente, questa volta).

Nell’intro e in un paio di flashback la giovinezza di Harrison Ford è ricostruita in computer grafica e devo dire che la cosa non pesa troppo. Anche se la ricostruzione non è proprio eccellente, l’Indi “finto giovane” appare un pochino appesantito e gonfio in viso, come se stesse facendo una leggera cura cortisonica. Chissà perché non sono riusciti a riprodurlo uguale uguale ad allora, mi chiedo, in fondo la tecnologia ormai dovrebbe esserne in grado.

Quello che manca è un po’ di epicità nell’amarcord, anche dove avrebbe potuto esserci. Una scelta voluta? Boh. Non ti corre mai quel brivido lungo la schiena o non ti viene il groppo in gola in stile Top Gun Maverick, per capirci.
Anche nei titoli di testa, dove sarebbe stato facile richiamare l’emotività con il noto lettering arancione o una musica più “pompata”, passa tutto in sordina. Anzi, a dirla tutta, quando il titolo compare sembra più l’inizio di una qualsiasi puntata di MacGyver, tanto la scelta è priva di personalità.

Ford se la cava, non è mai ridicolo, forse grazie al fatto che il suo personaggio sia sempre stato abbastanza autoironico (o forse perché è un attore con i controcazzi come non ne fanno più). Non spinge nemmeno troppo sul pulsante della vecchiaia, errore comune e noioso nelle ultime rivisitazioni di serie note come Arma Letale o Bad Boys.
Mikkelsen è un attore in grado di dare moltissimo e io lo adoro, però qui l’ho trovato un nemico abbastanza anonimo.
Banderas è inutile come in molti dei suoi ultimi film.

Un buon compito per Mangold, ben riuscito. Avrei voluto Spielberg? Ovviamente sì, come chiusura sarebbe stato doveroso. Non mi sono commosso come avrei voluto, ma te lo consiglio lo stesso, non c’è dubbio.

Ti lascio in un modo inconsueto, con la mia personale classifica in ordine di preferenza:
Indiana Jones e l’ultima crociata
Indiana Jones e il tempio maledetto
I predatori dell’arca perduta
Indiana Jones e il quadrante del destino
Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo