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“Yeti – Leggenda e verità” di Reinhold Messner

Sono sempre stato attratto da tutto ciò che è si trovi al limite dell’incredibile. Non posso farci nulla: UFO, sasquatch, bigfoot, yeti – appunto – e creature degli abissi varie. Misteri irrisolti e simili (vedi Il mistero del passo Dyatlov). Talvolta questa fascinazione nei confronti dell’insondabile offre anche qualche soddisfazione. Ad esempio, nel 2007 è stato catturato, morto, un calamaro colossale (mesonychoteuthis hamiltoni) del peso di 495 kg. Il suo occhio, il più grande del regno animale, misura tra i 30 e 40 centimetri di diametro. Un essere da oltre dieci metri di lunghezza, ritenuto fino a pochi anni fa una creatura mitologica. E invece no, esiste, e il suo corpo è esposto in un museo in Nuova Zelanda.
È con questo spirito che ho iniziato a leggere Yeti – Leggenda e verità, di Reinhold Messner. Un saggio del 1998 che, erroneamente e con un po’ di compiaciuto autolesionismo, consideravo alla stregua di un approfondimento alla Roberto Giacobbo. Senza nulla togliere eh, solo pensavo mi sarei trovato di fronte a qualcosa di molto leggero e affine alle misteriose e veloci luci nel cielo. Sbagliavo.

Messner, che non avevo mai letto e che rileggero, analizza il mistero dello yeti e lo smonta pezzo per pezzo. Lui, che tra Tibet e Himalaya ha trascorso gran parte della sua vita da esploratore, cerca e trova una soluzione al mito. Lo yeti, o tshemo come lo chiamano gli autoctoni, null’altro è che un orso. Anzi, per essere più precisi, lo tshemo è l’orso, lo yeti è la leggenda che nasce dal passaparola, dalla trasformazione che subiscono i racconti nel passaggio di bocca in bocca, nel passaggio tra ciò che vedono gli allevatori nomadi, con poche competenze scientifiche e molta immaginazione, e ciò che vuole vedere il mondo Occidentale.

Questo saggio è anche molto di più. È un racconto di appostamenti ed esplorazioni, di viaggi in un Tibet flagellato dalla Cina, di incontri e confronti. Questo saggio è una spiegazione precisa e dettagliata di ciò che può creare una divario culturale. Reinhold lo yeti l’ha visto, l’ha fotografato. Lì, con un contadino che gli dice: «È quello, non avvicinarti!»
Solo che, appunto, lo yeti è un orso.
Un orso che si nutre di yak e paura. Che nella notte sembra camminare su due zampe e che pare abbia rapito qualche fanciulla per portarla nella propria caverna…

Lo spazio per il mito, per la leggenda, rimarrà finché sarà presente uno spazio fisico che consenta al mistero di sopravvivere. Quindi, visto come vanno le cose, anche il mito finirà per estinguersi. Messner, in questo, lancia un messaggio che va ben oltre al tema soprannaturale.

“Non andateci! Il mistero del Passo Dyatlov” di Svetlana Oss

Un paio di anni fa mi sono imbattuto in un film dell’orrore che si intitolava Il passo del Diavolo. In genere, se guardo un film in terza serata tendo ad addormentarmi, salvo che questo non sia davvero stupido o di bassa qualità. Non so perché accada, ma più fa schifo il film e meno mi viene sonno (è un controsenso, ma non posso farci nulla). The Devil’s pass faceva decisamente parte della categoria horror pecoreccio, motivo per il quale lo vidi tutto. Alla fine venne fuori una simpatica scritta: il film era ispirato agli eventi accaduti al Passo Dyatlov (Urali) nel 1959. Aprii l’enciclopedia che racchiude tutto lo scibile umano (Wikipedia) e caddì nel tunnel del mistero del monte Otorten (traduzione letterale: non andateci).

Ti faccio un riassunto approssimativo, perché il mistero è davvero complesso e contorto e, se ti va, su Wikipedia (e su centinaia di altri siti) c’è descritto tutto nel dettaglio.
Nel 1959 nove studenti universitari si avventurarono sugli Urali per una spedizione escursionistica. Erano preparati, equipaggiati e abbastanza esperti (lì le temperature scendono di parecchio sotto lo zero, non si può improvvisare). Per farla breve, non tornarono, dovettero andare a cercarli e quello che trovarono risultò abbastanza inquietante. I nove erano ovviamente morti, ma in circostanze piuttosto bizzarre. La loro tenda era stata tagliata dall’interno e i ragazzi – meglio, i cadaveri – furono recuperati in tempi diversi, causa congelamento e neve. Erano “distribuiti” nella zona attorno, a gruppi o in solitaria. Alcuni avevano un colore arancione scuro (non da congelamento), a una mancava la lingua, a un altro un occhio, altri ancora erano nudi. Il livor mortis indicava che certi corpi erano stati spostati dopo la morte. Quelli che trovarono vicino a un albero, a parecchia distanza dalla tenda, erano posti su un letto di rami, tagliati dall’albero stesso fino a un’altezza di cinque metri. Sui corpi vennero rilevate radiazioni oltre la norma e, durante quella notte, da diversi punti, vennero osservati forti bagliori nel cielo (bagliori riscontrati anche nei resoconti sui diari dei ragazzi). E poi: costole spezzate, fratture craniche, il tutto senza ematomi esterni. Insomma, ti sei fatto un’idea.

Diamo un volto ai nove, mi sembra empaticamente utile.

Membri del gruppo di Dyatlov
I nove escursionisti morti al Passo Dyatlov (*Yudin: ritirato e rientrato in anticipo).

Prima di andare oltre, devo ricordarti una cosa. Come ti ho già detto quando ti ho parlato di Child 44: «Non ci sono crimini in Paradiso». Questo significa che, nell’Unione Sovietica dell’epoca, il crimine è stato sconfitto, così come il capitalismo, al quale è strettamente legato. È un dogma, punto. Quindi, se qualcosa di brutto avviene, non può che essere una disgrazia, una sciagura non derivante dalla volontà umana.

Preso da morbosa curiosità, ho iniziato a documentarmi e alla fine ho individuato questo libro: Non andateci! Il mistero del Passo Dyatlov, della giornalista Svetlana Oss. Non so perché non l’ho comprato subito, forse il titolo giacobbiano mi ha indotto a pensare (sbagliando) che si trattasse di uno di quei testi da edicola tipo UFO in forma, o cose simili. Non lo è. È un bel riassunto, un dettagliato riepilogo di ciò che si sa (e di ciò che si immagina) riguardo alla tragedia del Passo Dyatlov. La Oss propone una soluzione al mistero molto interessante – che io condivido e che non spoilero – razionale e verosimile.

Negli anni, a proposito di quanto sia potuto accadere al Passo Dyatlov, si è parlato di:
– condizioni climatiche estreme (venti, gelo);
– esperimenti militari (armi nucleari);
– UFO (nel senso più ampio di “oggetti non identificati”);
– KGB;
– yeti;
– tribù locali (Mansi);
– aggressione animale;
– pazzia o isteria di massa;
– presenza di una assassino nel gruppo.

La tenda degli escursionisti
Ritrovamento della tenda degli escursionisti.

Per qualche motivo, il cervello umano tende a scartare le soluzioni più credibili e prendere in considerazione le più bizzarre. Quando, poi, più elementi si mischiano in un’unica situazione, il frullato è assicurato.
Nel caso del Passo Dyatlov, c’era il veto di affermare che potesse esserci stato un crimine (nella Russia degli anni ’50, mai!), unito al coinvolgimento del KGB, incaricato di insabbiare tutto ciò che avrebbe potuto mettere a rischio la “sicurezza nazionale”. Insomma, c’erano tutti gli elementi per far sì che qualsiasi causa non fosse stata identificata come “morte per congelamento” divenisse un mistero. E, poiché quei nove ragazzi è molto improbabile siano morti per congelamento, il mistero si è ingigantito all’inverosimile.

Il libro della Oss propone una soluzione indagando a fondo nelle usanze delle tribù locali, facendoti scoprire gli effetti dell’amanita muscaria e tenendo sempre un occhio aperto sul contesto culturale e politico.
Certo, è solo una possibile soluzione, ma è così ben strutturata e convincente da essere davvero credibile. Secondo il mio parere, potrebbe essere la soluzione.

“Chi ha ucciso il pret de Ratanà” di Franco Busato

Come ormai saprai, non leggo spesso gialli (salvo tu non voglia considerare Ellroy un giallista ma, insomma, non mi pare il caso). Forse l’autore più affine a questo genere del quale posso dire di aver letto parecchio è Malvaldi, con il suo BarLume. Se escludiamo i Dieci piccoli indiani di Agatha Christie, l’ultimo “vero” giallo del quale ricordo di averti parlato qui è Il bosco di Mila, della mia concittadina Irma Cantoni (che aveva vinto il premio “Fai viaggiare la tua storia”).
Ecco, anche Chi ha ucciso il Pret de Ratanà è legato a un premio. Il premio è ovviamente il “Premio Letterario RTL 102.5 Mursia Romanzo Italiano” e Franco Busato, l’autore, era uno dei tre finalisti, nel 2019, insieme a Patrizia Fortunati, con Puzza di morto a Villa Vistamare (la mia prossima lettura), e al sottoscritto, con L’amico giusto.

Purtroppo (per te) ora ti pippi una mia breve divagazione (quasi sventramitica, ma questa è difficile da capire) sui premi non “di genere”. I premi di questo tipo accostano tra loro romanzi molto dissimili. Quindi: gialli, horror, fantasy, thriller, sentimentali, di formazione, ecc. (o vuoi che vada avanti?). Ciò che giunge alla selezione finale rappresenta il meglio dei vari generi che hanno partecipato. Fatta la “scrematura”, a mio parere, entra in gioco una certa dose di fortuna. Chi valuta gli ultimi titoli, per stabilire il vincitore, sarà per forza influenzato (soprattutto in caso di giuria popolare) dai gusti personali e dalle preferenze “di genere”, appunto. Pensarla diversamente è lecito (sai che sono aperto alle tue errate opinioni), ma sarebbe un po’ come affermare che si possa effettivamente stabilire cosa sia meglio tra Stairway to Heaven e Vesti la giubba, tra una lasagna e un profitterol. Tra un giallo, un romanzo umoristico e uno di formazione. Semplicemente, non si può.
Chi ha ucciso il Pret de Ratanà è, per farla breve, l’unico giallo giunto in finale, e quindi il vincitore “di categoria”.
Fine divagazione.

Raccontare la trama di questo romanzo senza svelare nulla è praticamente impossibile, poiché l’intrigo e il mistero sono gli elementi fondamentali che spingono alla lettura. Sarò quindi ermetico (come un Tupperware) e cercherò di non rivelarti troppo.
Milano. Un runner viene ucciso in una chiesa. Un neonato scompare dal passeggino mentre la madre riposa su una panchina. Un cadavere mummificato viene ritrovato in un forno. Questi tre eventi sono in qualche modo collegati? Ad indagare, ufficialmente, ci pensa la commissaria Delia De Santis e, meno ufficialmente, il suo compagno Solo Molina, eccentrico e stravagante ex-truffatore dalla mente geniale.

Chi ha ucciso il Pret de Ratanà non è il primo romanzo di Busato che ha come protagonista Solo Molina, è stato infatti preceduto da altre due indagini svolte dallo stesso personaggio: Delitto a Villa Arconati e Bolfolk killer (dovrò recuperarli al più presto). Ciò non mi ha però procurato alcun problema di lettura, la trama è godibile anche senza conoscere il “passato” di Molina, che viene solo vagamente accennato in alcuni passi.
L’intreccio è parecchio articolato, anche se non me ne sono accorto fino a quando non ho provato a ricostruirlo. La complessità della storia è infatti ben nascosta dall’abilità narrativa dell’autore (non si perde mai il filo, nonostante i continui colpi di scena).

Come direbbe Solo Molina che, tra le altre sue strane particolarità, raggruppa spesso aggettivi in gruppi di tre, questo è un giallo interessante, avvincente, coinvolgente. Se ami il genere non resterai deluso.