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“Il cammino del Giappone – Shikoku e gli 88 templi” di Luigi Gatti

Ho avuto il piacere di conoscere Luigi Gatti qualche mese fa, durante una sua presentazione dalle mie parti. Di solito non frequento le presentazioni letterarie (mea culpa) perché preferisco reperire online le informazioni sui libri, tuttavia ero a conoscenza del fatto che Gatti fosse un oratore esperto e volevo rubargli qualche segreto che sarebbe potuto tornarmi utile. L’abilità oratoria dell’autore si è rivelata assolutamente all’altezza delle aspettative, tanto che io ho realizzato non sarei mai riuscito a tenere un monologo simile mantenendo così alta l’attenzione del pubblico… ma questa è un’altra storia.

Il cammino del Giappone – Shikoku e gli 88 templi racconta l’esperienza vissuta dallo stesso Gatti lungo il percorso circolare di 1200 chilometri sull’isola di Shikoku (la più piccola delle quattro principali isole dell’arcipelago giapponese). L’itinerario prevede, appunto, la visita degli 88 templi del Buddhismo Shingon. L’autore, camminatore esperto che aveva precedentemente intrapreso il cammino di Santiago, spiega anche come e perché sia arrivato ad affrontare questa avventura e a diventare quindi un Ohenro (cioè un pellegrino, nella lingua locale).

Avevo rimandato la lettura pensando «ok, ma se non fai il cammino il libro cosa lo leggi a fare»: mi sbagliavo di grosso! Il cammino del Giappone narra, infatti, in primo luogo un viaggio interiore, universale per qualsiasi sfida si decida di affrontare (sia essa fisica o mentale). Certo, chi ha vissuto questa esperienza specifica (o chi la vivrà) troverà nel libro utili suggerimenti e potrà condividere il piacere di (ri)incontrare posti noti, ma non è a mio parere questo il vero “scopo” dell’opera.

Da non-frequentatore di Shikoku (né del Giappone, per ora) ho apprezzato appieno anche la descrizione di una cultura del tutto diversa dalla nostra, che Gatti illustra benissimo nei pro (tanti) e nei contro (pochi). Le differenze sono molto evidenti soprattutto nel rispetto verso il prossimo, così sviluppato da apparire straordinario (fantascientifico?). Mi viene subito in mente l’esempio dei contadini che lasciano, sulla strada, dei banchi alimentari self-service, dove chi compra deposita il denaro prendendo solo quanto gli spetta (tutto sulla fiducia!). Una cosa da noi impensabile. Ma sono molteplici le situazioni che fanno apparire il Giappone come una terra dalla quale avremmo molto da imparare…

Un’altra cosa che mi ha colpito è stata l’umiltà con la quale l’autore affronti qualsiasi scambio interpersonale, unita a una sete di conoscenza priva di pregiudizi. Devo dire che, in questo, ho ritrovato esattamente la persona che ho conosciuto dal vivo, un rarissimo esempio di creatore simile alla propria opera (sai che in genere preferisco non sapere chi ci sia “dietro”, poiché nella maggioranza dei casi “dietro” c’è una delusione).
È forse questo l’insegnamento più importante del libro: trovare sempre il modo di affrontare la vita con la mente aperta, una abilità che abbiamo dimenticato.

Ora ho sulla mensola dei “da leggere” anche Sol levante di Crichton. Beh, mi è venuta voglia di Giappone, quindi credo che ci rimarrò (sebbene restando a casa).

Altre cose simili che ho letto:
Portland Souvenir di Chuck Palahniuk

“Contro il vento alta è la sua fronte” di Matteo Campese

Come ormai sai bene, è abbastanza difficile che io segua il circo promozionale che ruota attorno all’uscita di un libro ed è altrettanto improbabile che legga libri recenti, se non quelli pubblicati dai miei autori preferiti. Questo preambolo per dirti che, invece, in questo caso, il circo con giraffe, zebre ed elefanti, l’ho seguito e arrivo “sul pezzo” con una certa preparazione. È una sensazione strana, che mi porta a diverse riflessioni inedite, con le quali mi insinuerò nelle tue orecchie (sperando tu non abbia ancora aderito alla demonizzazione plasticologica del cotton fioc).
Il motivo è semplice e, se hai controllato il blog recentemente, dovresti già conoscerlo. Contro il vento alta è la sua fronte viene pubblicato come quattordicesimo libro della collanna Leggi RTL102.5 (edita da Mursia) e, come ormai saprai, il tredicesimo era L’amico giusto, il romanzo con il quale ho vinto il “Premio Letterario RTL 102.5 E Mursia Romanzo Italiano”.
Eccoti spiegata, in gran parte, la mia preparazione.

In gran parte, però, significa non solo. Perché Matteo Campese, autore di Contro il vento alta è la sua fronte, è in realtà lo speaker Nessuno di Radiofreccia, che io ascolto spesso, durante il mio allenamento, tra le 16 e le 18 del pomeriggio. E questo è il secondo motivo della mia preparazione, ed anche l’aggancio alla mia prima riflessione…
Già, perché se leggi questo romanzo pensando a Nessuno sei fuori strada, e non solo un po’, ma del tutto. Tu Nessuno lo devi dimenticare, così come la foto del giovane ragazzo in camicia floreale che appare sul retro del volume. Devi invece ascoltare quello che dice l’autore, Campese, nelle sue interviste e solo lì troverai la “verità” e le intenzioni che hanno portato alla stesura di questo romanzo.

Io non ho letto Lo straniero di Camus (rimedierò), che l’autore dichiara esplicitamente essere la sua fonte d’ispirazione, ma ho letto La peste e, rimanendo nel filone “famoso” degli esistenzialisti, ho letto anche La nausea di Sartre. Posso dirti che, effettivamente, è a questi romanzi che ho pensato nell’affrontare Contro il vento alta è la sua fronte.

Ma un po’ di trama (e mai un po’ fu così idoneo, dal momento che la trama è in realtà poca e non è chiaramente il motivo principale della scrittura del romanzo).
Un soldato senza nome è il solo prigioniero di un carcere in un deserto africano. Unica sua compagnia Mosè, un topo (pensante). Il soldato viene rifornito di viveri ogni quindici giorni e trascorre tutto il tempo riflettendo sulla vita e confidandosi con il topo, testimone silente delle sue memorie (l’incontro con una prostituta e poco altro, che non svelo). Sì, anche il topo riflette, nel caso tu te lo stia chiedendo. Cosa avrà mai fatto, il soldato, per essere incarcerato? Perché non c’è nessuno, oltre a lui, nella prigione? Mi fermo.

Come ti dicevo, nel romanzo non accade quasi nulla. La trama è solo una scusa per riflettere in modo approfondito sul senso della vita, su cosa significhi essere un (U)uomo, sulla solitudine e sull’individo. Sì, come ti ripeto, siamo in pieno esistenzialismo. È inoltre evidente che ogni singola frase sia stata partorita con attenzione quasi maniacale nella forma e nel lessico, ricercando uno stile di scrittura volutamente antico, ispirato ai grandi autori di questa corrente.

Contro il vento alta è la sua fronte non è un romanzo facile e non è per tutti. È un romanzo che, come affermato dallo stesso autore, ricerca il bello. Un bello, nel senso intellettuale del termine, che forse era maggiormente apprezzato in passato rispetto a quanto lo sia oggi, nella nostra società del veloce consumo usa e getta. Purtroppo viviamo in un periodo in cui è molto più importante l’azione della riflessione. Campese ti obbliga a fermarti, ad andare lento e a pensare.

In definitiva, come avrai capito, questo romanzo mi è piaciuto. Probabilmente non lo rileggerò, la leggerezza è un’altra cosa, ma rileggeresti mai il romanzo di un esistenzialista? Forse, allora, anche questo è un pregio, un obiettivo centrato.

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Un’ultima mia nota (te ne avevo promesse…), che mi conferma quanto ho sempre pensato. I romanzi dovrebbero vivere per conto proprio, slegarsi dall’autore in maniera radicale. Questa ossessione che abbiamo per l’immagine, per la necessità di conoscere, toccare e vedere chi li ha scritti, è il frutto della superficialità che contraddistingue la società odierna. Come se fosse importante sapere dove faccia la spesa uno scrittore, a che ora pranzi e quando debba andare al cesso. L’era dei social ha distrutto la possibilità di ispirasi a qualcosa (qualcuno) di elevato, perché rende pubblico ciò che dovrebbe rimanere privato. E questo vale per tutti gli artisti in generale. Le opere possono volare alte, le persone restano ancorate a terra. Ci siamo privati della possibilità di imitare qualcuno che non esista, svelando il trucco dietro il sipario.
Ora è ancora più facile rimanere a terra e fare schifo, come specie, senza sentirci in colpa.

“Quasi a casa” di Elena Moretti

Ti avevo già parlato di Blowjim, vincitore del “Premio Letterario RTL 102.5 e Mursia – Romanzo Italiano” 2018, Quasi a casa è invece il romanzo di Elena Moretti che ha vinto la prima edizione del Premio, nel 2017. L’ho recuperato al mercatino, subito dopo aver terminato il libro di Cavaciuti (dal momento che si facevano compagnia sullo scaffale). Sì, perché ci ho riflettuto e non leggo mai nulla di “nuovo”, dove per “nuovo” intendo romanzi di scrittori esordienti, sconosciuti. Se controlli gli ultimi titoli e autori di cui ti ho parlato, passando dal più leggero Malvaldi fino ad arrivare alla Trilogia siberiana di Lilin, se non addirittura a Le notti bianche di Doestoevskij, non potrai che accorgerti di questo fatto. E, allora, tanto vale scegliere delle opere che abbiano vinto un premio, per buttarmi (ogni tanto) in questo mondo.

Quasi a casa è una storia di riscatto e rinascita che segue per filo e per segno i canonici punti di questa tipologia narrativa. Adrian, un sedicenne italo-romeno con grossi problemi familiari alle spalle, finisce a vivere in una malga, gestita da una Vecchia (così lui la chiama), una sorta di comunità di recupero per minori “difficoltosi”. Qui, tra il passato che fatica a scomparire e il presente che piano piano lo avvolge, scopre valori come l’amicizia, l’amore e il rispetto. Nel frattempo anche i suoi compagni di avventura rivelano le loro storie, le loro difficoltà. Tutti hanno un doloroso segreto da nascondere, non solo gli ospiti della malga, ma anche chi, in un modo o nell’altro, ci gravita intorno. Il romanzo è scritto sotto forma di diario dello stesso protagonista, con tutti gli errori lessicali e lo stile discorsivo che seguono questa scelta.

Come tu ormai sai (te l’ho spiegato anche parlandoti dell’ultimo libro che ho letto Viaggio al centro della mente di Adolf Hitler), io non credo nel Bene, non credo faccia parte della nostra specie. Io credo semplicemente che l’uomo sia destinato al Male. Senza giustificazioni o colpe, è un difetto intrinseco che ci porterà all’estinzione (senza drammi, siamo un inutile sputo nell’Universo). Non bastano pochi esempi di lungimiranza per cambiare la nostra essenza. Le opere d’arte, i viaggi nello spazio, le cure per le malattie, si perdono di fronte all’innegabile e immenso FATTO che siamo l’unica specie che si autodistrugge, uccidendo i propri simili, l’ambiente in cui vive e le altre specie. Cercare il Bene nell’Uomo sarebbe come affermare che, siccome siamo riusciti a far risolvere il cubo di Rubik a un orango (sparo, eh), allora tutti gli orango siano in grado di risolverlo. Invece quell’orango è l’eccezione, dobbiamo avere il coraggio di ammetterlo, e l’eccezione non fa la regola. Noi non siamo dei Leonardo da Vinci, noi siamo quelli che si ammazzano (e ammazzano) per il black friday, questo è il nostro stadio evolutivo medio.

Ti sei pippato tutta questa mia manfrina solo per farti capire che chi ha scritto Quasi a casa è molto probabile creda nel Bene. Il suo protagonista, pur avendo una passato di violenza che si ripercuote su reazioni a sua volte violente (da cui fatica a sfuggire), utilizza nell’intercalare delle espressioni “dure” come che scorno! e vive un amore delicato e contornato da timidi baci (molto femminile). Questo è quello che chiamo ottimismo. (Per darti un punto di vista completo dovrei anche parlarti del finale del libro, cosa che non faccio per non spoilerarti tutto). Io non credo si possa recuperare l’intera specie a causa dei difetti congeniti, figuriamoci il singolo individuo! Quindi comprenderai che il problema non è dirti se mi sia piaciuto o meno il romanzo, ma farti intendere quanto questo romanzo rappresenti un punto di vista totalmente diverso dal mio. Di sicuro ha creato uno spunto di riflessione e questo è sempre positivo.

In poche parole, se sei una persona buona, piena di ottimismo, fiduciosa negli esseri umani e felice di vedere trionfare l’amore, questo libro fa per te. Ma, se sei così, sei qui per errore, non stai certo seguendo questo blog per scelta, quindi addio.

“Blowjim” di Christian Cavaciuti

Lo so benissimo cosa stai pensando, è inutile che mi guardi così. Dopo due libri a sfondo erotico come Donne e L’altalena di Apollinarija ti vado a leggere un romanzo che si intitola Blowjim, manco avessi inghiottito una scatola intera di Viagra e fossi in preda a turbe ormonali incontrollabili. Ma, credimi, non è come sembra, non sto scrivendo nudo e non ho nemmeno dovuto ingrandire la dimensione del font per sopraggiunta cecità…

Blowjim è il romanzo di Christian Cavaciuti che ha vinto il “Premio Letterario RTL 102.5 e Mursia – Romanzo Italiano – Seconda edizione” nel 2018. E, a dispetto del titolo che strizza l’occhio ad altre strizzate più intime, il sesso non rappresenta il tema principale (se non l’elemento scatenante della trama) né si tratta di un libro erotico. Peraltro l’autore, in una nota finale, ci tiene a specificare che il titolo, se non fosse stato limitato da esigenze editoriali, sarebbe stato ben più esplicito (mmm, chissà com’era inizialmente… forse Sgorgonjim?). Detto questo, dal momento che la pubblicità su Radiofreccia era martellante, quando me lo sono trovato davanti, usato, ho deciso di tentare la sorte.

Trama. Melanie, a sedici anni, sale sul palco mentre stanno suonando i Doors e ha un dialogo ravvicinato con lo snake (che, ricordiamolo, is long seven miles) di Jim Morrison. Poi scende dal palco e se ne va restando una fan qualsiasi, ritratta solo in qualche foto di spalle in cui è quasi irriconoscibile. Passano venticinque anni. Melanie è diventata una sorta di consulente alimentare e lavora per Barry Sears, il creatore della dieta a Zona. Un po’ per lavoro e un po’ per amicizia accompagna il noto wrestler André the Giant (momento malinconia per chi aveva il pupazzeto da bambino) a Parigi, dove questi muore d’infarto. Melanie deve quindi restare in città intanto che i medici terminano le indagini di rito e ne approfitta per visitare la tomba di Morrison e rivangare il passato e quel gesto eclatante che l’ha tanto scombussolata. Solo che Jim ricompare… Mi fermo.

A dispetto dei pochi(ssimi) spostamenti fisici che avvengono durante la storia, il viaggio vero è quello all’interno della protagonista, all’interno di Melanie. Gran parte del romanzo è infatti uno studio, una introspezione, per capire cosa sia rimasto della ragazzina che ha fatto un pompino a Jim Morrison e per capire perché l’abbia fatto (o se sarebbe in grado di rifarlo). Ci sono poi moltissime divagazioni sui più svariati argomenti. L’autore, infatti, con la scusa di confrontare la cultura americana di Melanie con quella francesce, approfitta per dire implicitamente cosa ne pensa della nostra.

Blowjim non si può certo definire un romanzo “commerciale”, non credo sia un libro per tutti, a partire dal lessico che spesso è molto articolato. Mi aspettavo qualcosa di più semplice, invece sono rimasto piacevolmente sorpreso. Certo, lo puoi leggere solo in superficie e accontentarti della vicenda principale, ma credo che ti perderesti parecchio di quello che è nascosto sotto il tappeto. (E te lo dice uno che avrebbe preferito un po’ più di azione.)

Io, però, non sono fatto per i romanzi che hanno come protagoniste delle donne, riesco ad immedesimarmi poco e non li apprezzo quanto meritano. Ma questo è un mio limite, credo (o della mia natura umana), tanto che non ascolto nemmeno, salvo rare eccezioni, musica femminile, dove per femminile intendo cantata da donne.
Cosa vuoi farci, è così.