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“Barbie” di Greta Gerwig

Che mese luglio, eh? Siamo tipo a cinque articoli sul blog, ne avrai le palle piene di sentirmi. Peraltro ritorno al cinema per due volte nel giro di una settimana, una cosa che non succedeva da almeno dieci anni (a 11 euro a film, un salasso economico nella città d’Italia più cara, per quella che ormai è una passione elitaria). Credo che quello relativo a Barbie, nella storia del blog, sia in assoluto il post più rosa e meno in target di sempre… Cosa mi ha convinto? Will Ferrell, ovviamente.

Ti preavviso che ci andrò leggero sulle tematiche, come fossimo al bar. Non ho la testa, in questo momento, per approfondire in modo più serio la cosa. Quindi mi concederò delle semplificazioni che tu accetterai di buon grado. Questa non è una democrazia.

Non ti parlerò della trama del film, diamo per scontato tu la conosca già, sai che non mi piace perdere tempo. Intanto però posso parlarti del pubblico: gli esseri umani sono, come sempre, orribili. I trailer mostrati prima della visione – una selezione del peggio in uscita questa estate – sono stati accuratamente selezionati per essero lo specchio della stupidità che ci si aspetta di incontrare in un’occasione del genere. Nonne vestite di rosa, mamme vestite di rosa, nipoti vestite di rosa. Una cosa da farti sanguinare i neuroni. Osservando i volti e gli abiti, ti riendevi conto di come la maggior parte delle donne presenti fossero il nemico principale di loro stesse, per quanto riguarda l’ambita parità di genere. Una frivolezza incredibile, soprattutto nel mostrare svariati centimetri di carne credendo che questo sia la “libertà”.

E qui viene la sorpresa. Già, perché Barbie è un film di gran lunga migliore della maggior parte del suo pubblico (ribadisco per la terza volta: la maggior parte, non tutto). Onestamente mi aspettavo la solita lezioncina perbenista e netflixiana sull’uguaglianza e la parità, appunto. Non è stato così. Della Gerwig avevo visto Ladybird, che però non ricordo. La cosa più terrificante è che sia la regista del prossimo e giustamente discusso Biancaneve senza i nani e questo mi ha creato, su di lei, un preconcetto che difficilmente, comunque, scalfirò.

Facciamoci un fuoristrada.
Questo dover legare le cose/persone/storie ai termini è di una idiozia colossale. Mi riferisco a Biancaneve, ovviamente. È solo marketing, non inventiamo altre stronzate. Dopo il presunto bacio-stupro del principe de La bella addormentata, ci mancava la rottura di cazzo sui diversamente alti di Biancaneve, che a quanto pare sarà anche senza principe. Chiariamoci, io non discuto le tematiche, non mi ci metto nemmeno. Io discuto sulla abominevole scelta ignorante di voler cambiare delle cose esistenti e farle diventare altro, mantenendone i nomi. Questo voler decontestualizzare un personaggio per forza, non ha alcun senso. Lasciamo Biancaneve lì dov’è, nel suo tempo, con i suoi errori, e facciamo altro. Qualcosa di nuovo, più giusto, più corretto. La verità, però, è che bisogna essere corretti ma guardare sempre al denaro. E questa è l’ipocrisia e l’incoerenza che caratterizza (quasi) tutta l’odiosa e inutile produzione cinematografica relativa a queste tematiche.

Torniamo a Barbie. Barbie non cade nel tranello e riesce a portare un messaggio in modo intelligente. C’è qualcosa di infra-genere nel modo in cui Barbie parla dell’attuale problema della diversità tra i generi (che poi, diversità, è un’altra di quelle bellissime parole che sono state demonizzate in favore di una visione superficiale). Perché anche Ken, come Barbie, è un po’ perso. È come se fosse l’essere umano a essere perso. Cosa che effettivamente è, visto quanto facciamo schifo e quanto siamo lontani dal concetto di evoluzione di specie.
Credo che la forza di questo film sia stata quella di dover viaggiare con il freno a mano tirato. Sì, perché Barbie è un film che può essere visto da un pubblico mooolto giovane, e questo avrò costretto la produzione a smorzare i toni. Paradossalmente, un messaggio meno esplicito e più leggero è diventato anche più intelligente, meno carico di finto perbenismo e più equilibrato. Più vero e reale, insomma.

Margot Robbie è perfetta nel ruolo e anche fisicamente. Ryan Gosling è perfetto nel ruolo e anche fisicamente. Purtroppo un pochino sottotono proprio Will Ferrell, che non esprime il suo potenziale al massimo. Un peccato, perché ci sarebbe stato un bel Ricky Bobby.

Nota per i miei studi di investimento: le azioni Mattel sono salite.

Note per i miei studi sulla specie: tanti discorsi ma la realtà è che non conta nulla, solo il denaro, speriamo di estinguerci presto.

“Blade Runner 2049” di Denis Villeneuve

Lo dico subito: Villeneuve non mi ha deluso nemmeno questa volta. E sì che il rischio era alto, andando a confrontarsi con una delle pietre miliari della fantascienza. (Recentemente, peraltro, ho visto il suo Enemy: stupendo.) Blade Runner è stato trattato con la venerazione che merita, senza cadere nella tentazione di strafare. E’ come se il regista abbia esplorato nuove zone dell’universo creato da Dick evitando di cercare di imitare il film di Scott, ma ampliandone gli orizzonti geografici. E’ un film carico di smog, nebbie, deserti urbani. Era un seguito indispensabile? Forse no. E’ un buon seguito? Sicuramente sì, e accade di rado.

Trama, non spoilero. Dai primi dieci minuti salta subito fuori che, trent’anni prima delle vicende narrate, è nato un bambino da una replicante. Su questo gira tutta la storia. Di chi è il bambino? Chi è? Se i replicanti potessero riprodursi sarebbe un nuovo gradino dell’evoluzione? Non aggiungo altro, per non togliere il gusto della visione.

C’è qualcosa di disumanizzante nel seguire le vicende di Gosling, che è a sua volta un replicante (si sa fin da subito), qualcosa che però viene smorzato dal suo bisogno di compagnia, che lo rende comunque “umano”, in un certo modo. E poi beh, la compagnia gliela offre Ana de Armas sotto forma di ologramma. Amore tra androidi, difficile da digerire inizialmente, ma poi ci si abitua. Soprattutto perché è Ana.

Ci sta anche Harrison Ford nei panni di Deckard invecchiato, è ormai una parte a cui sarà abituato, dopo Ian Solo e Indiana Jones.

Quello che mi è mancato è l’angoscia che il Blade Runner dell’82 ti lascia nell’animo ogni volta che ne termini la visione. Quel misto tra comprensione e tristezza che provi nei confronti di Rutger Hauer durante il suo ultimo monologo.
Ma non si può avere tutto (così dicono).