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“American Gangster e altre storie di New York” di Mark Jacobson

Questo è un libro che ho trovato al bancone del Libraccio (sia santificato) durante l’edizione 2020 di Librixia (la fiera del libro di Brescia). Due euro e cinquanta centesimi. E meno male. Un acquisto avventato, forse, ma l’American Gangster di Ridley Scott, pur non essendo tra i suoi capolavori, mi era piaciuto (Denzel Washington è sempre cazzutissimo).

Il film racconta la storia vera di Frank Lucas, narcotrafficante di Harlem diventato un gangster, di quelli tosti, dopo la consueta gavetta e la tipica comparsa dal nulla. Una cosa alla Scarface, per capirci. Figo. L’opera di Scott, nasceva, è vero, da un articolo di Mark Jacobson (quello che dà il titolo al libro, pur occupandone solo trenta pagine). Il libro uscì praticamente in contemporanea con il film. Devo aggiungere altro?

Pura opera commerciale, questa raccolta di articoli (sono sette in circa duecento pagine) rappresenta un fantastico esempio di onanismo autoriale. Jacobson scrive molto, molto bene. È crudo, duro, sa far sorridere con il suo freddo cinismo. A tratti, nello stile, mi ricorda Palahniuk. Ma finisce lì, perché quello che racconta non è assolutamente interessante. Le diverse (sono diverse?) storie narrate non stimolano nessuna sensazione, se non, appunto, la lettura di qualche paragrafo particolarmente brillante.

Se dovessi riassumere di cosa parlano questi articoli non saprei nemmeno da che parte iniziare. Basterebbe leggere dieci righe a caso prese nel mezzo, e poi altre dieci e altre dieci ancora. È qualcosa di talmente frammentato da essere indescrivibile. Sembra un elenco della spesa.

Puttane, droga, gang, fattoni e magnaccia si mescolano senza sosta e senza un filo conduttore. Sembra che gli abbiano detto: «Ehi, sta per uscire il film, metti insieme altre pagine a caso insieme all’articolo su Frank Lucas e facciamo un po’ di soldi». Che peccato. Onestamente, non so se Jacobson abbia scritto anche dei romanzi. Se l’avesse fatto ne leggerei volentieri perché, ripeto, lo stile c’è ed è molto forte. Ma questa, questa è solo un’opera senz’anima figlia del mercato.

“Escobar – Il fascino del male” di Fernando León de Aranoa

Sarò piuttosto breve nella recensione di questo film, poiché non necessita di molte parole.
La storia è basata sul libro Amando Pablo, odiando Escobar di Virginia Vallejo, giornalista televisiva amante del noto narcotrafficante colombiano e poi, in extremis, passata dalla parte dei “buoni”. Viene ripercorsa la vita di Escobar, dall’ascesa criminale negli anni Ottanta fino alla morte avvenuta nel 1993, passando attraverso la carriera politica, la presunta lotta per il popolo e la costante corruzione di tutto il sistema che lo circondava.

Come avrai già capito non siamo di fronte a un nuovo Scarface, niente di così emozionante. È un film che si lascia guardare, che riporta molti episodi (ma non tutti) della vita del criminale e invoglia chi, come me, non l’abbia ancora fatto a leggersi una buona biografia. Tutto qui. Se togliamo l’istrionismo di un Bardem imbolsito all’inverosimile non resta poi molto, insomma. La sensazione, alla fine, è che sia successo poco, che in un attimo si sia consumato tutto. E sì che di cose da dire ce ne sarebbero state, anche solo guardando wikipedia, la vita del trafficante sembra ben più articolata di quanto mostrato da Fernando León de Aranoa.

Ora mi cerchero davvero una biografia, così da approfondire l’argomento come si deve. Un dato su tutti (sempre da wiki): il cartello di Medellín, di cui Escobar era a capo, incassava 60 milioni di dollari al giorno. Escobar, secondo Forbes, era il settimo uomo più ricco del mondo.