L’invenzione di Morel è un romanzo breve (o racconto lungo) dello scrittore argentino Adolfo Bioy Casares, grande amico di Jorge Luis Borges (che scrive la prefazione). Circa 140 pagine di fantascienza del 1940, con alcuni dichiarati omaggi a L’isola del dottor Moreau di Wells.
Scopro ora che, nel 1974, da questo romanzo è stato tratto un film con la regia di Emidio Greco. Sarebbe molto interessante vederlo, le foto che ho trovato online sembrano belle, tuttavia dubito sia facilmente reperibile.
Parlarti de L’invenzione di Morel senza spoilerare è pressoché impossibile, se non restando molto, molto vaghi nella descrizione della trama.
Un fuggitivo si nasconde su un isola della Polinesia, della quale scopre presto di non essere l’unico abitante. Oltre a lui, infatti, è presente sull’isola un gruppo di amici che frequentano le poche strutture esistenti, una piscina e una sorta di casa museo. Il fuggitivo, pur non entrando mai in contatto con nessuno di loro, si innamora perdutamente di una donna, Faustine, che ha rapporti poco chiari con gli altri uomini del gruppo. Nel frattempo l’uomo nota che sull’isola accadono cose strane: nel cielo il Sole e la Luna sono sdoppiati, c’è un motore che si muove con la forza cinetica data dalle maree, il gruppo di amici sembra scomparire per poi ricomparire… e via dicendo. Mi fermo.
Questo romanzo ha suscitato in me sentimenti contrastanti. Nella prima parte, troppo onirica per i miei gusti, l’ho odiato. Poi, però, quando l’invenzione viene svelata (e qui non posso aggiungere altro), la psicologia del racconto cambia e si fa tutto più interessante. Si instaura una vena malinconicamente drammatica che mi è piaciuta molto. L’eterna solitudine interiore del fuggitivo diventa il vero fulcro della storia, rendendo secondaria la vicenda esterna. Il disperato amore che l’uomo prova per Faustine trascende il genere fantascientifico e si collega agli interrogativi primari dell’esistenza (la mortalità, la vita, l’eternità).
Di certo parliamo di una fantascienza molto più profonda nelle tematiche, rispetto a quella di H.G. Wells (L’uomo invisibile, La guerra dei mondi) anche se, devo dire, Casares perde senza dubbio la sfida del tempo. Questo romanzo ha ottant’anni e l’età la sente tutta, molto più di quelli dello scrittore britannico (che lo precedono, peraltro, di quasi mezzo secolo). Insomma, per scrivere nel 1940 in un linguaggio che non invecchia mai, ti devi chiamare John, Fante o Steinbeck, ma comunque John.
L’ho letto diversi anni fa e posso dire di aver avuto le tue stesse impressioni. Non mi ha entusiasmato e non ho letto altro di questo autore…
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Credo che il problema della “distanza linguistica” sia stato determinante, perché la storia non è affatto male e nemmeno le situazioni (e turbe) che ne derivano…
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