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“Il più grande uomo scimmia del Pleistocene” di Roy Lewis

Era parecchio tempo che avevo Il più grande uomo scimmia del Pleistocene nella mia lista. Un romanzo che è una rivisitazione moderna della preistoria (oppure una rivisitazione preistorica della modernità). Roy Lewis è stato geniale, non c’è dubbio.

Forse non si ride così tanto come mi è capitato di leggere in giro, ma questo non è per forza un male. La storia è divertente, non propriamente comica, a voler essere pignoli.

La narrazione è in prima persona ad opera di Ernest, figlio, appunto, del più grande uomo scimmia del Pleistocene, Edward. Lewis presenta un micromondo di personaggi senza tempo che si scontrano nel Pleistocene allo stesso modo in cui potrebbero scontrarsi nei giorni nostri. Lo zio Vania, assolutamente reazionario, Edward, che ambisce a un progresso che elevi la specie e Ernest, che vorrebbe trasformare le nuove scoperte del padre in capitalismo.

Con estrema leggerezza, Lewis ti sbatte in faccia la piccolezza dell’uomo che, in fondo, non si è evoluto poi molto, se non in superficie. Perché una cosa è scoprire il fuoco, l’altra saperlo utilizzare per un fine “corretto”, un fine che ci porti tutti da qualche parte. Di esempi potrei fartene a centinaia, uno su tutti l’energia atomica, ma non credo che sia necessario… Per un essere umano così intelligente da inventare la ruota ce ne sono altri novantanove pronti a fracassarla sulla testa di qualcuno a caso. Il problema è che “la grandezza della specie” la fa la media degli individui che la compongono e non quei pochissimi che da quella media ci si elevano.

170 pagine velocissime, un piccolo capolavoro.