Uomini e topi (1937) potrebbe tranquillamente essere quello che, in tempi moderni, definiremmo una “costola” di Furore. I temi, gli ambienti e le situazioni sono le stesse del capolavoro di John Steinbeck, ma trattati attraverso una vicenda più piccola e meno complessa, quasi un racconto lungo, più che un romanzo.
George e Lennie sono due braccianti vagabondi, alla costante ricerca di un lavoro e con un sogno piantato in testa: avere abbastanza denaro per possedere un appezzamento proprio dove vivere del “grasso della terra”. C’è un problema però: Lennie è ritardato, oltre che enorme e molto forte. Ogni volta che si fermano da qualche parte Lennie ne combina qualcuna delle sue e, per evitare problemi, i due devono poi scomparire. Per quanto George cerchi di educare Lennie, questi dimentica in fretta tutti gli insegnamenti e il circolo si ripete. Quando, nell’ennesimo ranch, ci si mette di mezzo la moglie/gatta morta del borioso proprietario le cose si complicano tragicamente…
Steinbeck è sempre Steinbeck, ed è in assoluto lo scrittore che preferisco tra i classici della letteratura americana. Anche in Uomini e topi si ritrova la condizione di semi schiavismo dei braccianti, costretti ad accettare qualsiasi soppruso a seguito della grande depressione americana. Le condizioni di (non)sopravvivenza e il cosciente crollo di qualsiasi sogno e speranza di rivalsa di una generazione, che sfoga nel gioco e nell’alcool la sua frustrazione. La netta linea di separazione che divide chi ha, e comanda, e chi non ha, e ubbidisce.
La delicatezza con cui lo scrittore gestisce il rapporto tra i due protagonisti è qualcosa di unico. Non si può non provare pena per il povero Lennie e comprendere allo stesso tempo anche i momenti di insofferenza di George, caricato di una gravosa responsabilità nei confronti dell’amico, destinato a commettere errori irreparabili a causa della propria ingenuità.
In un mondo senza pietà, dove ci si fa le scarpe per poco, non c’è spazio né tolleranza nei confronti di chi è diverso. Lennie è destinato a diventare la vittima sacrificale della guerra tra i poveri, dove chi è ultimo non viene difeso anche quando si potrebbe, per il timore di inimacarsi il padrone. Una guerra che si combatte tra ritardati, appunto, vecchi, storpi, monchi, neri… dove anche i cani al termine della loro vita sono un peso, un peso che viene alleggerito con un colpo di fucile.
Ho letto un’edizione della Bompiani tradotta da Cesare Pavese. Ora corro a cercare il film omonimo del 1992, con (e di) Gary Sinise, insiema a John Malkovich, che non ho mai avuto modo di vedere.
Letti di John Steinbeck:
I pascoli del cielo (1932)
Pian della Tortilla (1935)
Uomini e topi (1937)
Furore (1939)
La luna è tramontata (1942)
Di Steinbeck ho letto solo Furore, proprio grazie alla tua recensione. Mi è piaciuto moltissimo, tanto da diventare subito uno dei miei libri preferiti, e per questo ti devo ringraziare. Leggerò non appena possibile anche gli altri suoi romanzi perché lo apprezzo tantissimo come autore.
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Caspita, mi fa davvero piacere tu l’abbia letto grazie a me, mi sento onorato!
Ha uno stile tutto suo, a volte molto descrittivo ma non per questo noioso. Riesce a rendere perfettamente le situazioni in cui vivono i suoi personaggi, a farti partecipe dei loro problemi. Ed è una scrittura che non invecchia, nonostante sia ormai passato del tempo.
Quello che io ho notato, e a cui ti consiglio di fare molta attenzione prima di un’eventuale scelta, è quanto sia importante il traduttore. Con I pascoli del cielo, ad esempio, sembrava a tratti di leggere un altro scrittore. Meglio dirigersi sulle traduzioni più moderne, che sono più fedeli rispetto alle riscritture invasive del passato…
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Figurati, è stata davvero una bella scoperta. Condivido il tuo pensiero sulla sua scrittura: molto incisiva, mai noiosa, efficace anche nelle lunghe descrizioni. Forse è il carattere dei personaggi dare ancora più incisività. Si prova compassione per loro, ma si rimane sbalorditi di fronte al loro orgoglio e dignità. Grazie anche per il consiglio, lo seguirò sicuramente.
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